Verso la fine degli anni 80 del secolo scorso, fui uno dei primi a Genova, e il primo nel Gruppo cui apparteneva la mia azienda, a introdurre un numero limitato di contratti a part-time. Le interessate erano giovani mamme e, prima di tutto, persone serie. Pur lavorando per il 50% del tempo (l’unica misura prevista in quei primi tempi) loro “produzione” fu infatti ridotta in misura ben minore dell’orario. Lavoravano con maggiore serenità e utilizzavano meglio il tempo di lavoro, ricevevano una retribuzione leggermente superiore al 50% per il minor carico fiscale.

Tutto bene? Niente affatto: mi guadagnai molte rampogne dai colleghi e dall’Intersind, la rimpianta “Confindustria dell’IRI”, tutti preoccupati di veder scardinata l’organizzazione aziendale e certificato un qualcosa che sapeva di assenteismo autorizzato. Passato un primo periodo di mugugno, tutto funzionò molto bene. Ancor meglio funziona oggi, dato che il part-time può essere usufruito per percentuali minori di riduzione. In questo modo la “produzione” delle persone è praticamente uguale a quella del lavoro full time e la retribuzione percepita pure.

Oggi il part-time è qualcosa di acquisito, le preoccupazioni di un tempo ridotte al minimo. E farebbero sorridere se non sentissi spuntare critiche analoghe per una forma di lavoro che in questi tempi di quarantena è stata imposta alle aziende non sempre pronte, tecnicamente e psicologicamente, ad accettarlo: lo smart-working, lavoro agile o più correttamente, il lavoro da casa.

Il lavoro da casa, o da remoto, nacque molti anni fa in UK come strumento per combattere lo spopolamento delle isole e delle zone più remote della Scozia. In Italia ha stentato ad affermarsi e se ha avuto uno sviluppo è stato in occasione di catastrofi: il COVID19 è piovuto addosso alle aziende, chiudendo in casa i dipendenti e rendendo necessario utilizzare questa modalità di lavoro.

Va detto che Genova, dopo il crollo del ponte Morandi, è stata all’avanguardia nell’introdurre questa importante innovazione, per ridurre gli spostamenti dei dipendenti e alleggerire il traffico cittadino, privato della sola via di scorrimento. Si è trattato di imprese o fondazioni altamente tecnologiche, principalmente insediate nell’area degli Erzelli, che hanno reagito senza problemi all’innovazione organizzativa. Per capire l’importanza dello smart working, è interessante citare il caso di una signora genovese, trapiantata in Svezia, ma bloccata a Genova per la pandemia. La signora è assistente personale di un altissimo dirigente di una azienda d’importanza mondiale: opera senza problemi a più di duemila chilometri dalla normale sede di lavoro. 

La pandemia potrebbe e dovrebbe essere l’occasione per dare l’impulso definitivo allo smart working.
I vantaggi sono evidenti: meno affollamento sui mezzi pubblici e meno traffico pendolare. Minori costi per le mense, risparmio sugli spazi e le infrastrutture.
In uno studio del 2015 l’Università di Stanford aveva stimato per un'azienda di servizi un aumento della produttività del 13% grazie a questa modalità di organizzazione del lavoro. Uno studio più recente che ha coinvolto 250 persone operanti in 21 imprese, piccole medie e grandi, ha evidenziato questi dati medi annui per dipendente: 2.400 chilometri percorsi in meno, sette giorni guadagnati e 270 chili di anidride carbonica non immessi nell’aria con un risparmio di circa 1.300 euro a dipendente. Tra i benefici dello smart working, inoltre, c'è il poter realizzare un migliore work-life balance ed una conseguente diminuzione dello stress da lavoro.

Ovviamente non tutti i lavori si prestano, ma nella maggior parte dei casi si potrebbero limitare le presenze fisiche negli uffici allo stretto necessario, per il resto la tecnologia aiuta e risolve. Purtroppo non tutto il mondo del lavoro italico (datori di lavoro e sindacati) sembra pronto a questo salto organizzativo e culturale. È vivo da entrambe le parti il pensiero che possiamo banalmente definire: “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”.
Per il sindacato significa che il lavoratore a domicilio possa essere considerato di serie B rispetto ai presenti in ufficio e, soprattutto se donna, messo in disparte nelle politiche retributive e di crescita professionale.
Per il datore di lavoro resta il sospetto che il lavoro a domicilio sia una possibile sinecura, un modo autorizzato di lavorare con il minimo impegno. Questo ovviamente può accadere, ma mi sia consentito di dire sottovoce che il “lavativo” resta tale anche se sta fisicamente in ufficio; così la sua assenza se non altro non è di disturbo e provocazione per i colleghi.

Battute a parte, la gestione del lavoro da casa non è diversa da quella del lavoro tradizionale. Fondamentale è la capacità del management di dare obiettivi chiari, controllare tempi e modi del loro raggiungimento, saper premiare, o punire, in base ai risultati. Purtroppo per esperienza diretta (anche su me stesso), so che se già non è facile dare obiettivi ben strutturati, è faccenda scomoda darsi parametri e modi di controllo; quasi indigeribile, infine, riprendere e se del caso punire chi non raggiunge l’obiettivo. Anche premiare può essere scomodo se non ci si distacca completamente, e non è così semplice, dalla soggettività.

Per concludere, credo che la diffusione dello smart-working sarà una dei pochi lasciti positivi della pandemia, se imprese, sindacati e lavoratori ne comprenderanno appieno i vantaggi e sapranno adattarsi al nuovo modo di operare. Sarà necessario dotarsi degli strumenti informatici necessari, ma questi sono ormai largamente disponibili, e il loro costo sarebbe assorbito dai molti risparmi cui abbiamo accennato. Più complicato sarà formare le persone e abituarle a lavorare in un contesto diverso da quello cui erano abituate da sempre. Ma la vera sfida e la chiave del successo sarà formare dei dirigenti e capi in grado di guidare le risorse umane senza averle fisicamente sotto controllo.