All'ombra del basilico

Parafrasando una famosa regola, si può dire che il dialetto viaggia sulla pancia. Promuovendo a suo tempo un progetto per salvaguardare il "dialetto come lingua di comunicazione” l’idea di fondo era quella di salvaguardare il Genovese recuperando la centralità degli usi orali valorizzandone tutti i comportamenti, i valori, i sentimenti collegati.

In questo modo l’accento veniva spostato dal piano della correttezza e della conformità linguistica (care ai club degli eruditi) a quello dell’autenticità basato sul recupero di una funzione linguistica messa in relazione al territorio e agli oggetti. Dalla nostalgia eravamo passati all’economia, dal folclorismo romantico alla cultura materiale. E non è certamente un caso che nelle comunità dialettofone esistesse un rapporto diretto fra lavoro, prodotti e scambi commerciali.

Lingua franca, il dialetto serviva per stabilire contatti, all’interno di circuiti economici sommari, fra popolazioni diverse per statuto e convinzioni. Nascono così fenomeni di prestito, calco, interferenze e contaminazioni, che trasformano la lingua materna di una comunità in una formula creola capace di dare a certe proprie parole, a certi propri oggetti, a certi propri prodotti, un valore referenziale che non appartengono più ad uno specifico universo ma diventano patrimonio comune a tanti.

In quel inizio di 1968 era ormai chiaro a tutti che bisognava spalancare alle produzioni regionali italiane spazi commerciali al di là dell’Oceano. Ciò che mancava era un progetto comune sostenuto dal complesso degli attori sociali. Per questo alcuni settori del sistema produttivo agro-alimentare nostrano pensarono di collegarsi all’immagine del pugilato proponendolo come un sigillo di qualità. Per questo sui nove aerei che portarono in America i tifosi italiani per l’incontro con Griffith, tutti erano convinti che Nino Benvenuti fosse l’uomo del destino. In realtà le cose andarono molto diversamente. Benvenuti vinse, sì, ma in maniera non del tutto convincente. Una parte  del pubblico americano non gradì ma, inaspettatamente, trovò un riscontro perfetto in  un altro pugile italiano, il genovese Bruno Arcari che aveva aperto la riunione vincendo in 4 round contro Pablo Lopez, l’astro nascente della boxe statunitense.

I giornali americani ne parlano, la comunità italo-americana ne fa un beniamino. Alcuni imprenditori liguri ed italiani trovano in lui un Testimonial senza pari con il quale presentarsi sul mercato del Nord America.

Così la Paramount, la maggior industria alimentare americana del tempo, investe un milione di dollari (del ’68) nella distribuzione dei nostri prodotti. Nei quattro anni successivi gli investimenti complessivi salgono a 35 milioni di dollari. Un fiume di denaro che trasforma il Pesto nel manifesto dell’armonia, della perfezione, dello stile. Nasce così “La Repubblica del Pesto”.

Una repubblica indipendente che non ha spiegazioni molto diverse da quelle che i suoi protagonisti, i cinque fratelli Belloni, in arte gastronomica riuniti sotto il marchio “Zeffirino”, si sono dati. Un’avventura coraggiosa che lungamente aveva atteso un marchio degno di questo nome per metterlo su un piedistallo. Non su un piedistallo qualsiasi; ma sul tetto del mondo.

Diventare ristoratori, non ristoratori qualunque, ma su larga scala, fino ad essere a capo di un impero culinario sul quale non tramonta mai il sole, questo era il loro obiettivo. Un obiettivo raggiunto anche grazie al Pesto. Un prodotto del tutto coerente con i riferimenti culturali e gli aspetti materiali e pratici veicolati dal loro impegno e, tuttavia, visto dalla platea internazionale dei consumatori come separato e talvolta contrario rispetto alle caratteristiche più autentiche della Terra che lo aveva originato. Infatti, nonostante i programmi di valorizzazione reciproca, nell’immaginario collettivo di molti paesi la nozione di buon gusto non si trasferisce automaticamente dal Pesto alla Liguria.

Dopo Genova, il miglior pesto del mondo si mangia a Las Vegas. Preparato nel mortaio, nella sede storica di “Zeffirino” in via XX Settembre 20, viene spedito in aereo e in meno di 24 ore è sulla tavola di un consumatore esigente disposto a pagare fino a 500 $ per un pranzo.

Però il ristorante si chiama The Venetian – Il Veneziano, in ossequio alla città che nella fantasia di mezzo mondo è il simbolo  della ricchezza, dello stile e della qualità. Come risarcimento alla Liguria non restano che le hostess al piano. Nere come l’ebano sanno qualche parola di Genovese. Un atto di prosecuzione di un mondo che esiste solo all’ombra del basilico.

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