La legge del genere

Tenendo conto del senso dell’ironia di parecchi fra i lettori è probabile che troveranno in questo racconto molta parte di verità.

Sabato 20 luglio 2013 sui Quotidiani nazionali infuria la polemica; stranamente non si tratta della solita, immancabile, disputa solleonesca a base di tette al vento e culi all’aria, secondo l’antico motto italico per cui “Panza chiena nun penza a guaie”.
No. La questione, pur rimandando sempre il tutto ad un livello di rappresentazione collegato ai particolari anatomici, la pancia, si pone agli antipodi della visione caricaturale consacrata poco sopra dall’arguzia napoletana: il fisco. Il nemico più segreto ed intimamente nocivo degli italiani.

Nell’universo balneare intorpidito dal calore e nelle strade cittadine un po’ meno animate del solito la notizia rimbalza con i contrasti che porta con sé.
A Milano, gli stilisti Dolce e Gabbana sono stati condannati a un anno e otto mesi per evasione fiscale. Dopo che i giornali hanno ripreso e diffuso la notizia con titoli scandalistici ed il “j’accuse” lanciato verso di loro dall’assessore alle attività produttive del Comune di Milano, gli Stilisti, per protestare contro l’atteggiamento della stampa e del Comune, visti anche come contrari ai progressi industriali e commerciali del miglior Made in Italy, hanno dato vita ad una clamorosa messinscena alla voce: “Comune di Milano fate schifo!”; chiudere per tre giorni tutte le attività del Marchio nella città di Milano e, per massima rappresaglia, ivi compresi le edicole di via della Spiga, il Martini Bar, il barbiere ed il ristorante in via Risorgimento!
Che ciascuno trovi qui la sua sanzione!
Una conclusione in forma di tragedia.

Con effetto straordinario il grido di dolore dei Due: la stampa ha sbagliato, il Comune è cattivo! è diventato un mezzo inno patriottico. Vox Populi, Vox Dei. Ecco il proverbio più veritiero, ripetuto come un ritornello a cominciare dal Presidente della Regione Lombardia, pronto a promettere spazio agli Stilisti per le prossime future sfilate, al quale subito dopo si sono uniti per chiedere clemenza l’immancabile Flavio Briatore e trenta milioni di “Sine”.

Sina, diminutivo di Sinopia, è una mia amica. Bravissima persona. Tuttavia, nei suoi comportamenti abituali improntati ad un certo automatismo commercial-gossipparo, rivela i valori fondamentali di gran parte dell’italica società contemporanea dove non c’è primato senza dubbio, non c’è riuscita senza sospetto, non c’è sconfitta senza vittimismo, non c’è giustizia senza congiura, non c’è realtà senza rituale.
In lei, le macchine e gli uomini, il razionale e l’emozionale, il progresso tecnologico ed i desideri arcaici, si trasformano in simboli della civiltà consumistica ed in organi di una realtà che ha senso solo se trasformata in spettacolo.
Allora, la vacanza ha senso solo se si fa in uno di quei posti detti, à la page, nei quali i moli degli imbarcaderi, le terrazze dei bar, le stradine del centro storico, non si possono dimenticare perché sono la prova provata del di lì avvenuto passaggio di un qualche rappresentante del jet-set.
La gita in barca ha significato solo se, mentre sei da solo nel bel mezzo del mare aperto, rischi di essere triturato da uno yacht, che manco ti ha preso in considerazione, epperò vuoi mettere quale yacht se non quello di un noto attore o stilista.
La vista di un magnifico tramonto sulla spiaggia vale solo se, nel bel mezzo di un quadro vivente, il paesaggio scompare e tu rischi di annegare per l’onda lunga causati dal passaggio sottocosta dell’immancabile nave da crociera.
Sina, dunque, non è altro che la metafora di una legge del genere, quello dell’italico abitante il quale esprime le qualità proprie all’universo culturale al quale partecipa.

Una metafora che, tanto per non distaccarsi dagli esempi forniti, già un anno e mezzo fa era stata raggiunta e, purtroppo, tragicamente superata dalla realtà stessa.
Il sorpasso è avvenuto nel gennaio 2012 quando una nave della Costa Crociere è naufragata davanti all’isola del Giglio.

Allora, la versione leggendaria del simbolismo commercial-spettacolare passava, come sempre in ossequio alla Vox Populi, davanti ad uno dei più bei paesaggi d’Italia. Passava, stretta idealmente tra due ali di folla, con in prima fila oltre alle immancabili “Sine” anche alcuni dirigenti di quella comunità, che fino a qualche giorno prima del fattaccio avrebbe ripudiato chiunque fosse stato contrario alla “cerimonia dell’inchino”.
Come minimo sospettandolo di intelligence con qualche località turistica concorrente.
Poi, la Costa Crociere ha fatto crash ed i svariati milioni di “Sine” che popolano la penisola hanno fatto Oooh! Passando in un attimo dal ruolo di superficiali spettatori-attori a quello di vittime, martiri e salvatori della comunità isolana e della natura oltraggiate.

Eccolo il mormorio il quale sarebbe stato caro ad Alessandro Manzoni per accompagnare nella sua opera la sfilata di figure discutibili, disposizioni alla corruzione o tradizioni all’imbroglio.
Forse per scaramanzia oggi a quello stesso mormorio colto dalla retorica si affidano gli indagati del disastro per chiedere clemenza.
Non so dire se questo canto porterà fortuna ai sospettati. So però che in questo anno e mezzo gli italiani, Sina compresa, hanno provato tutta la gamma delle emozioni possibili. Perciò credevo fossero riusciti a scrollarsi di dosso la caratteristica strutturale della legge del genere. La comunione fra spettatori e protagonisti.
Invece, la trama semantica profonda di questa legge, a somiglianza dei grandi generi di rappresentazione scenica che tanto affascinano la Sina ed i diversi milioni di suoi consimili, è ancora rispettata fedelmente.

Di fronte alla reazione clamorosa di Dolce e Gabbana, i quali naturalmente hanno tutto il diritto di rispondere come meglio credono a sentenze ed iniziative che giudicano lesive dei loro diritti e della loro rispettabilità, le “Sine” nostrane, anziché guardare la vicenda con un certo distacco, prima si sono stupite, poi si sono interrogate, quindi hanno protestato in nome e per conto di una pretesa neutralità.

Tu pensi che la neutralità della Sina sia quella di chi vuole difendere il guadagno - la legittima ricompensa per qualunque impresa che abbia come armatura il lavoro, il merito, la passione - dalla rapacità interessata dello Stato sprecone. Invece no.
La Sina è sempre perfettamente convinta che il principio di neutralità debba comunque  fornire un terreno di scelta al simulacro ed alla dissimulazione.
Dopo tutto, le difficoltà cominciano perché siamo sempre vittime di sfortune e di ingiustizie.

Spazio dunque al dramma, allo spettacolo ed alla Sina.

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