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- Scritto da Luiggi Pariggi
- Categoria: A ciassa do paize
Deracchi! Con questo termine, ruvido e sconnesso, come le macerie che si lasciava dietro, la consuetudine dialettale del mio paese identificava i temporali violentissimi e inarrestabili.
Deracco! Appena meno di un Derûo d'ægoa, (un diluvio) molto, ma molto di più, di un semplice temporale.
Deracchi! Capaci da soli di creare allagamenti. Quelli che oggi, con un gioco di rimandi al negativo che pesca dritto nella simbologia del terrore armato, sono identificati come: bombe d'acqua!
Nel mondo tradizionale dunque, i Deracchi erano ben conosciuti e molto temuti, per questo erano rispettati. Siccome di solito si verificano in periodo di sbalzi climatici repentini, all'inizio dell'autunno (ottobre) ed alla fine dell'estate (metà agosto), quelle strane giornate di calma piatta che di solito li precedono come gli improvvisi addensamenti provenienti da una ben precisa direzione montana e sospinti da una inequivocabile rotta dei venti erano osservati e valutati con attenzione. Come con diligenza erano mandati a memoria i percorsi fatti dalle ondate di piena. Sempre gli stessi.
Perché l'unico modo per non trovarsi in grave difficoltà contro i Deracchi era quello di evitarli standosene in casa. Anche per difenderla, la casa.
A questo punto avrei voluto dire della mia sorpresa nello scoprire, purtroppo per l'ennesima volta, come ci sia sempre troppa gente che - nonostante la scolarizzazione diffusa, l'informazione puntuale se non precisa, la possibilità di conoscere e capire sicuramente superiore rispetto agli antichi - si fa sorprendere indifesa o impreparata.
Avrei voluto dire del dissesto dei fiumi. Qualche giorno fa, calando dall'alto sulla piana della Scrivia, vedevo l'alveo del torrente disseminato di chiome verde-argentee. Toh, hanno piantato gli ulivi nel corso d'acqua. Invece guardando meglio ho visto che non erano ulivi ma salici. Alberi di una certa altezza e dimensione che sicuramente erano lì almeno da qualche stagione. Poi in quel punto l'acqua ha strappato l'argine e la strada che vi correva sopra.
Avrei voluto dire di questo e di altro ma, come ha rilevato il Sindaco di Genova : “ La Città è malata”. E allora di fronte al momento più tragico che drammatico non parlerò di quanto volevo limitandomi a porre una domanda. A chi di dovere.
Perché per aiutare le vittime del disastro a spalare il fango ed a rimettere in piedi quanto danneggiato o perduto anziché ricorrere ai soliti giovanissimi “Angeli del fango” non si richiamano solidaristicamente per un servizio civilmente utile le centinaia di cassintegrati della regione? I quali, come si sa, sono liberi da impegni di lavoro e retribuiti. Modestamente, è vero, ma pur sempre retribuiti solidaristicamente dalla collettività.
Essere solidali è anche crescere. Nelle responsabilità.
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- Scritto da Peter Beffroy
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Parafrasando una famosa regola, si può dire che il dialetto viaggia sulla pancia. Promuovendo a suo tempo un progetto per salvaguardare il "dialetto come lingua di comunicazione” l’idea di fondo era quella di salvaguardare il Genovese recuperando la centralità degli usi orali valorizzandone tutti i comportamenti, i valori, i sentimenti collegati.
In questo modo l’accento veniva spostato dal piano della correttezza e della conformità linguistica (care ai club degli eruditi) a quello dell’autenticità basato sul recupero di una funzione linguistica messa in relazione al territorio e agli oggetti. Dalla nostalgia eravamo passati all’economia, dal folclorismo romantico alla cultura materiale. E non è certamente un caso che nelle comunità dialettofone esistesse un rapporto diretto fra lavoro, prodotti e scambi commerciali.
Lingua franca, il dialetto serviva per stabilire contatti, all’interno di circuiti economici sommari, fra popolazioni diverse per statuto e convinzioni. Nascono così fenomeni di prestito, calco, interferenze e contaminazioni, che trasformano la lingua materna di una comunità in una formula creola capace di dare a certe proprie parole, a certi propri oggetti, a certi propri prodotti, un valore referenziale che non appartengono più ad uno specifico universo ma diventano patrimonio comune a tanti.
In quel inizio di 1968 era ormai chiaro a tutti che bisognava spalancare alle produzioni regionali italiane spazi commerciali al di là dell’Oceano. Ciò che mancava era un progetto comune sostenuto dal complesso degli attori sociali. Per questo alcuni settori del sistema produttivo agro-alimentare nostrano pensarono di collegarsi all’immagine del pugilato proponendolo come un sigillo di qualità. Per questo sui nove aerei che portarono in America i tifosi italiani per l’incontro con Griffith, tutti erano convinti che Nino Benvenuti fosse l’uomo del destino. In realtà le cose andarono molto diversamente. Benvenuti vinse, sì, ma in maniera non del tutto convincente. Una parte del pubblico americano non gradì ma, inaspettatamente, trovò un riscontro perfetto in un altro pugile italiano, il genovese Bruno Arcari che aveva aperto la riunione vincendo in 4 round contro Pablo Lopez, l’astro nascente della boxe statunitense.
I giornali americani ne parlano, la comunità italo-americana ne fa un beniamino. Alcuni imprenditori liguri ed italiani trovano in lui un Testimonial senza pari con il quale presentarsi sul mercato del Nord America.
Così la Paramount, la maggior industria alimentare americana del tempo, investe un milione di dollari (del ’68) nella distribuzione dei nostri prodotti. Nei quattro anni successivi gli investimenti complessivi salgono a 35 milioni di dollari. Un fiume di denaro che trasforma il Pesto nel manifesto dell’armonia, della perfezione, dello stile. Nasce così “La Repubblica del Pesto”.
Una repubblica indipendente che non ha spiegazioni molto diverse da quelle che i suoi protagonisti, i cinque fratelli Belloni, in arte gastronomica riuniti sotto il marchio “Zeffirino”, si sono dati. Un’avventura coraggiosa che lungamente aveva atteso un marchio degno di questo nome per metterlo su un piedistallo. Non su un piedistallo qualsiasi; ma sul tetto del mondo.
Diventare ristoratori, non ristoratori qualunque, ma su larga scala, fino ad essere a capo di un impero culinario sul quale non tramonta mai il sole, questo era il loro obiettivo. Un obiettivo raggiunto anche grazie al Pesto. Un prodotto del tutto coerente con i riferimenti culturali e gli aspetti materiali e pratici veicolati dal loro impegno e, tuttavia, visto dalla platea internazionale dei consumatori come separato e talvolta contrario rispetto alle caratteristiche più autentiche della Terra che lo aveva originato. Infatti, nonostante i programmi di valorizzazione reciproca, nell’immaginario collettivo di molti paesi la nozione di buon gusto non si trasferisce automaticamente dal Pesto alla Liguria.
Dopo Genova, il miglior pesto del mondo si mangia a Las Vegas. Preparato nel mortaio, nella sede storica di “Zeffirino” in via XX Settembre 20, viene spedito in aereo e in meno di 24 ore è sulla tavola di un consumatore esigente disposto a pagare fino a 500 $ per un pranzo.
Però il ristorante si chiama The Venetian – Il Veneziano, in ossequio alla città che nella fantasia di mezzo mondo è il simbolo della ricchezza, dello stile e della qualità. Come risarcimento alla Liguria non restano che le hostess al piano. Nere come l’ebano sanno qualche parola di Genovese. Un atto di prosecuzione di un mondo che esiste solo all’ombra del basilico.
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- Scritto da Pier Cristiano Torre
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Perché vado a caccia di squali? Forse per vincere la paura.
Probabilmente ho sempre provato qualche elemento di angoscia. Già da bambino.
A quel tempo in casa mia c'era un solo libro: I Miti greci. Ricordo che dovevo fare un discreto sforzo per conciliare le diverse credenze che si intrecciavano intorno agli Dèi dell'Olimpo, i quali avevano come sport quello di concedere o negare ai mortali qualsiasi dono desiderato. Quindi stavo bene attento a non citare a vanvera il loro nome nel corso di una conversazione. Non mi conveniva.
Forse era il timore che qualcuna di quelle sinistre previsioni potesse diventare parte della mia realtà a farmi appassionare alle avventure di Odisseo. Nel suo mondo c’era sempre qualcosa di crudele e contorto. I sogni si rovesciavano in incubi, e toccava a lui, Ulisse, difendere l’aspirazione sua e degli umani a nascere e morire come individui in un universo in cui, per un comune mortale, era impossibile a distinguere il sopra dal sotto. Forse la vedevo davvero così a soli dieci anni.
Certo, questo ha alimentato il mio desiderio di vedere che cosa ci fosse veramente sotto il mondo in cui vivevo. Di vedere dove poggiavano le fondamenta dei palazzi vuoti di questa città, Genova. Una città che ne ha sempre abbastanza, rifiutando così ogni esuberanza, ogni slancio. Una città che non ama le sorprese. Né le brutte, né le belle. Del resto, in questa specie di Messico, come il mio amico Rudy chiama ironicamente questa vecchia città, l’inverno non è mai troppo freddo e l’estate non è mai troppo calda. Spesso c’è il sole, ma non troppo. Si prepara la conquista del mare, ma non troppo frequentemente. Si spende per la moda, ma un po’ meno e con minor gusto di quanto di solito si fa nelle grandi città. Si fa anche della politica, ma solo quanto basta per rimanere al penultimo posto fra le città che contano. In fin dei conti non c’è niente. Salvo dei protagonisti intercambiabili. È stato allora che ho cominciato a fare il palombaro.
A quel tempo pochi conoscevano la forza impetuosa e sfigurante del fondo del mare che trascina via il formalismo, il decoro puntiglioso, il dettaglio inutile. Perché il mare sotto la superficie è buio. Lì sotto, i rapporti sono spontanei, i dettagli sensitivi, le visioni allucinate. Grandi forme nere si allungano e si ritirano rimanendo sconosciute. Per fortuna. Quando la forma si fa più vicina e rivela la sua figura, è una forma mortale. Un logico punto di arrivo. Il mare non parla per metafore e resta irreprensibilmente fedele a sé stesso. Un organismo vivente, profondo e violento, incontrollabile e carnivoro, che usa le sue vittime come un argomento con cui scoraggiare i suoi avversari.
Che cosa produce questa profonda oscurità, interrotta soltanto dalla luce grave delle torce, sugli occhi di chi è abituato a non uscire dal guscio da cui si fa proteggere? Non lo so. Io non so che farmene di quelli che non guardano il loro vicino neppure per imprecare. Quando la vita mi ha imposto di prestare un giuramento di fedeltà alla libertà e all’uguaglianza, ho accettato il primo ed ho rifiutato il secondo.
La libertà è una febbre difficile da definire. Per molti è una parola sporca. Sono quelli che non amano la concorrenza. Per me è un percorso ad ostacoli, una lotta fatta di contrasti. Una lotta della quale non potrei fare a meno. A vincere o a perdere. Ho sempre pagato di persona il prezzo delle mie scelte, ma ho sempre preteso di farle. Il che alla lunga è diventato un casino, avvelenandomi la vita quanto necessario. Ma tirare i remi in barca per malafede proprio non avrei potuto. E allora sotto!
In quanto agli altri,rompiscatole e tristi,non mando a dire, dico: fatevi i cazzi vostri! Purtroppo non se li fanno quasi mai. E quando non sanno più cosa dire allora incominciano con la storia dell'eguaglianza.
Ti dicono: siamo tutti uguali! E tuttavia ogni giorno vedi qualcuno che non è giovane, non è bello, non sembra neanche tanto in salute,poi entri in un bar e ti trovi di fronte un barista fashion con i suoi clienti. Giovani o giovanilisti. Modello impiegato di banca o funzionario della regione; tutti vestiti e pettinati alla moda; tutti assidui lettori del “Corriere della Sera” o di “Repubblica” o iscritti a qualche “blog” e per questo convinti di essere più intelligenti dei loro colleghi di umano inventario.
Giri un po' e incontri madre e figlia. La prima bella in carne, con una gran lucentezza che viene fuori dalla sua figura. La seconda invece di nessun interesse, totalmente incolore. Le due donne non solo non sembrano parenti, non sembrano neanche appartenere allo stesse genere. Dice: è solo questione di forma.
Hai detto niente! La forma conta, eccome se conta. Perché ognuno ha la sua forma, che è sua e di nessun altro, ed in questo ha una sua perfetta finitezza. La finitezza della singolarità. Così come ognuno è unico nel suo modo di fare e di essere. Ci sono i coraggiosi ed i vigliacchi, gli intelligenti e gli stupidi, i santi ed i killer. Come si fa a ridurre tutto questo dentro un unico ruolo? Solo se sei un ipocrita, se hai un egoismo da accattone, se hai paura di restare solo o di condividere il tuo ruolo da ipocondriaco con un altro disgraziato come te, che giudica certamente falso quello che non capisce e giudica certamente vero quello che non conosce, puoi dire che siamo tutti uguali. Ma io non sono un paranoico, sono uno che cerca di conoscere. Io mi rifiuto di negare il significato delle cose che non conosco o non capisco. Perciò ho il coraggio di dichiarare che non siamo tutti uguali.
Perché, mai, le persone hanno uno stile unico. Ci sono almeno due cose che ci rendono diversi. Il talento e la fortuna.
Non solo è normale, è perfino giusto, che una persona che dispone di notevoli qualità intellettuali, morali, tecniche, possa nel suo ambito emergere più di altri. Così come è giusto che una persona che possiede qualità fisiche,materiali,concrete, tangibili, magari non per merito ma per fortuna, abbia diritto ad avvalersene se ci riesce.
Davvero un Michelangelo od un Leonardo per esistere avrebbero potuto adeguarsi agli altri loro contemporanei che facevano voto di restare ignoranti tanto quanto effettivamente erano? Davvero una bella donna deve sentirsi in colpa perché ha più occasioni di essere notata e presumibilmente di emergere di una più grassa e più brutta solo perché quest'ultima guadagnandosi un diploma forse è diventata un po' meno ignorante di lei?
La vita degli umani è caratterizzata dal continuo affermarsi di sempre diverse personalità che intraprendono sempre nuove strade; di soggetti che nella loro personalissima quotidianità oltrepassano ed entrano in contrasto con la banalità dei motivi e dei linguaggi dell'ideale centralistico e delle sue numerose varianti artificiali e formali. Tutte refrattarie a che la norma dominante cambi. Ne deriva un'ossessione per la precettistica dell'uguaglianza ancorata ad un immaginario dispotico che, per rendere uguale quello che uguale non può essere, limita l'intelligenza, i sentimenti e gli ideali. In una parola la libertà. La libertà di essere sicuramente diversi, possibilmente migliori, eventualmente più fortunati del proprio prossimo. Per questo ho giurato verso la libertà e non verso l'uguaglianza.
Così la pensavo a vent'anni, così la penso adesso che sto invecchiando.
Per questo ho intrapreso la stesura della “Parodia Mitologica”. Miti e riti dell'antica Grecia. Nient'altro che la storia di uomini che si sono battuti contro le interpretazioni dominanti. Prima di tutto quelle dei litigiosi, lascivi e codardi Dèi dell'Olimpo. Poi quelle che i padri cercano sempre di imporre ai figli. Se c'è una storia delle storie riguardo al confronto generazionale questa è quella contenuta nei Miti greci. Da Urano e Crono alla lotta fra Odisseo ed il re Filomelide.
E sono di nuovo ad Odisseo.
“Se andrai a Troia tornerai in patria dopo vent'anni, solo e in miseria”, lo aveva avvertito l'Oracolo. Per questo si era finto pazzo e Agamennone, Menelao e Palamede lo trovarono che arava un campo. Quando egli finse di non riconoscere i suoi ospiti, Palamede strappò il piccolo Telemaco dalle braccia della madre e lo mise a terra dinanzi alle zampe degli animali che tiravano l'aratro. Odisseo tirò le redini e fu costretto a partire.
Tornerà dopo venti anni, solo e in miseria. Come lui, pochi degli altri greci riusciranno a tornare in patria e anche quei pochi troveranno guai.
Come me. Sono tornato in patria dopo molti anni. Forse non ho trovato solo guai, ma mi sono ritrovato senza più coraggio. Quello che avevo lo avevo speso tutto per gettare l'anima in faccia al mondo che mi assediava. Succede. All'inizio hai sempre molto coraggio, vai avanti incurante del pericolo poi, piano, piano, il coraggio finisce e non pensi di poterti salvare. Il tempo e lo spazio perdono di significato e resti soltanto con quello che ti porti addosso.
Per difenderti puoi tentare di staccare la spina che alimenta il cervello. Oppure usare un procedimento diverso. Immergerti dentro te stesso alla ricerca del senso della verità.
Probabilmente per questo vado a caccia di una preda pericolosa e difficile come lo squalo.
Nell’era ipertecnologica dei comandi a distanza, il pescatore solitario d'altura è uno dei pochi le cui avventure conservano una qualche somiglianza con quelle degli antichi guerrieri. Come loro deve accostarsi agli artigli del mostro, alle fauci della fiera, per vincerli. Sempre mantenendo un contegno da uomini nobili. Nonostante una tensione che lascia dei piccoli intagli sui cuori. «Siamo al massimo e quindi daremo il massimo».
Non c’è altra spiegazione per comprendere le loro motivazioni.
Eccessi, pericoli, peripezie, di fronte ad un ambiente dove tutto si mescola: umido, freddo, caldo, sudore, gioia, e tutto è incerto; il risultato, le possibilità. Sperano soltanto di vedere la piccola macchia scura che risale e diventa sempre più grande.
Una sorta di ricreazione bruciante, vivente, concreta. Il mio colpo di fulmine.
Ora che sulla barca ci sono davvero e sto giocando il ruolo classico di un avventura all'antica, sento di avere bisogno di un certo raccoglimento, di un certo ritmo. Un richiamo mi scorre dentro, come una cosa dello spirito. È il richiamo del mondo puro e istintivo. Ricco di rare qualità. Sempre onesto, sempre frugale, sempre pronto ad avanzare. Qualità così nette. Rivelano i vantaggi di una situazione in cui si pensa in maniera libera, senza sospetti, a ciò che si incontrerà. Probabilmente perché non si sa bene che cosa aspettarsi fino a quando arriva il momento del riscontro. Il che contribuisce a mantenere vivo il senso di speranza e aggiunge alla realtà delle cose la possibilità di un progresso. Un senso della speranza che brucia come una fiammella. Qualche volta vacilla, ma alla fine ritorna sempre. Trascinato da questo spirito lotto per vincere la paura. La paura di diventare come molta della gente che ho lasciato a terra. Pigra e priva di risorse. È un peccato essere così sognatori ed inutili.
Anche adesso seduto nella barca.
Dice: Va bene e poi? Poi, chi può dirlo. Siamo solo al principio.
Perché in verità, come Ulisse, io non voglio fuggire dalla situazione in cui mi trovo. Anche se il mondo con cui combatto molte volte è crudele e sleale.