Considerazioni in compagnia di un calice di Rosè

Ho letto l’articolo di Pier Cristiano Torre : è interessante ed il contrasto di cui parla mi ha suscitato istintive considerazioni.

Proprio perché istintive ho ritenuto opportuno farle sedimentare per verificare se avessero un senso o fossero solo frutto di sentimenti che, talvolta, possono portare fuori via.
In compagnia di un Rosé ho usato come cartina al tornasole i miei sentimenti per la Terra di origine di mia nonna materna, l’Oltregiogo e più precisamente Parodi Ligure. Certo la condizione non è sovrapponibile a quella di suo cugino sia per le distanze diverse che separano lui e me dai rispettivi luoghi di origine sia perché la mia frequentazione di quei luoghi è comprensibilmente più assidua della sua.
Credo, però, che l’elemento determinante il diverso atteggiamento mentale (“Laggiù”) sia tutt’altro : l’amministrazione pubblica (statale e periferica).
È comprensibile, direi ovvio, che i rapporti parentali non risentano di quella differenza ma le constatazioni sulla vita quotidiana lasciano il segno. Il senso civico che specchia il grado di civiltà di un gruppo sociale lo si constata appena si esce di casa.
Auto parcheggiate fuori dai limiti o in doppia fila, carta cicche e scatole di sigarette buttate per terra, aiuole e parchi mantenuti male dalle amministrazioni e utilizzati peggio dai cittadini, automobilisti che non rispettano i semafori ed altre abitudini incivili sono di immediata constatazione per chi proviene da nazioni in cui comportamenti del genere non sono tollerati ma nemmeno abitudine della gente.
Ritengo che per questo quando suo cugino viene dalle nostre parti si riconosce nel gruppo familiare ma si sente altrove –“Laggiù”– quando esce dall’ambito familiare.
Forse è come può capitare ad uno di noi quando si trova in certi luoghi della penisola italiana e “Laggiù” è il termine con cui il cugino ci dimostra quanto sconveniente sia la nostra convivenza con l’italica struttura statale e l'habitus mentale che caratterizza gli abitanti della penisola.

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Rosé, faide e parentele.

Siamo 40 cugini.
In questo modo “Bacci”, il cugino di mio padre, qualche anno fa definiva l'insieme della nostra Famiglia.
Per la verità questi 40 cugini non erano cugini nel senso di figli di zii o figli di cugini dei genitori. Erano “cugini” nella percezione di famiglia, tipica di una tradizionale Casa genovese, dove all'insieme della parentela vera e propria si unisce quello della affinità per contatto, presenza, prossimità, somiglianza. Dove la Famiglia diventa un Clan.
Un universo particolare nel quale tutti si conoscono, tutti sono pronti a litigare con tutti, ma sempre con una forte coesione morale, giacché tutti sono disposti a far fronte comune contro le invadenze o intrusioni pericolose o negative di chi non vi appartiene. Sia esso un vicino, un “foresto”, o la cattiva Amministrazione Pubblica.
Faide e Parentele, sotto il terzo millennio, parafrasando il titolo di un celebre studio storico sulla realtà sociale della Repubblica di Genova.
Per tutta la generazione precedente alla mia i legami fra i “cugini” erano piuttosto stretti. Con la mia generazione i legami diretti si sono allentati. Io, naturalmente, so chi sono gli appartenenti alla Casa ma alcuni non li ho mai visti. So della loro esistenza, niente di più.
In effetti i contatti più stretti si hanno in occasione dei funerali. Lì si ha una diretta esperienza di cos'è un Clan genovese. La cerimonia si conclude sempre con una festa. Ricordando il morto com'era da vivo e onorando la vita come merita: vivendola insieme alle persone di fiducia.

Lo scopo di questi rapidi cenni sulla fisionomia di una antica Casa genovese è di aiutare a comprendere quello che mi è successo poco tempo fa.
Ero stato invitato a compiere un tour fra le case vinicole della Provenza per assaggiare il Rosé, il vino dell'estate francese. In una sala da Thé della “Provenza Verde” ho assaggiato il vino di una piccola casa produttrice che, a mio giudizio, è stato largamente il migliore di tutti quelli bevuti in una settimana. Migliore anche di quelli prodotti da “Chateau” blasonati.
Così, ho scritto al proprietario complimentandomi. Mi ha risposto invitandomi alla sua tenuta.

Lì ho scoperto che sua madre portava il mio stesso cognome ed era originaria di Genova.
Da che zona di Genova?
Da Aggio*
Avevamo dei “cugini” ad Aggio.

Ho saputo che la madre del mio interlocutore effettivamente era la figlia di un antico “cugino” trasferitosi all'estero più di 50 anni fa. Per questo mi era sconosciuta.
In breve abbiamo riscoperto forti somiglianze. Del resto, lui non ha mai estinto i suoi rapporti con la Liguria.
Ogni anno vi trascorre un periodo di vacanza. Tuttavia se nei miei confronti il contesto a cui fa riferimento questo mio “cugino” ritrovato è quello tipico della larga parentela genovese spostando il ragionamento sul complesso della realtà ligure la questione cambia.
L'uomo si rivolge all'insieme regionale con il termine : “Laggiù”. Marcando una distanza che va ben oltre quella che lo separa fisicamente dal confine.
É come se parlasse di un mondo lontanissimo e diversissimo da quello a lui caro cioè la terra di origine di sua madre. Quasi il suo rapporto personale con la Liguria fosse regolato da due opposti principi: quello positivo del cognome e della parentela, quello negativo dell'articolazione e delle pratiche della società ligure contemporanea.

Non mi era ancora capitato prima di incontrare un simile contrasto. Da una parte il riconoscersi pienamente in un qualcosa e subito dopo lo smentirsi.
Certo, molte persone hanno scarsa opinione di numerosi aspetti della odierna realtà ligure, specie se raffrontata ad altre situazioni contemporanee o ai fasti del passato. Ma nessuno, mai, mi aveva presentato questa difficoltà sotto la forma di una incompatibilità fra la sua matrice individuale ed i principi di identificazione collettivi.

Per questo ho deciso di raccontarlo.
Magari, qualcuno fra i Lettori saprà darmi una spiegazione.


*Aggio è una località situata lungo i primi tornanti della strada che da Genova-Molassana sale a Creto.

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All'ombra del basilico

Parafrasando una famosa regola, si può dire che il dialetto viaggia sulla pancia. Promuovendo a suo tempo un progetto per salvaguardare il "dialetto come lingua di comunicazione” l’idea di fondo era quella di salvaguardare il Genovese recuperando la centralità degli usi orali valorizzandone tutti i comportamenti, i valori, i sentimenti collegati.

In questo modo l’accento veniva spostato dal piano della correttezza e della conformità linguistica (care ai club degli eruditi) a quello dell’autenticità basato sul recupero di una funzione linguistica messa in relazione al territorio e agli oggetti. Dalla nostalgia eravamo passati all’economia, dal folclorismo romantico alla cultura materiale. E non è certamente un caso che nelle comunità dialettofone esistesse un rapporto diretto fra lavoro, prodotti e scambi commerciali.

Lingua franca, il dialetto serviva per stabilire contatti, all’interno di circuiti economici sommari, fra popolazioni diverse per statuto e convinzioni. Nascono così fenomeni di prestito, calco, interferenze e contaminazioni, che trasformano la lingua materna di una comunità in una formula creola capace di dare a certe proprie parole, a certi propri oggetti, a certi propri prodotti, un valore referenziale che non appartengono più ad uno specifico universo ma diventano patrimonio comune a tanti.

In quel inizio di 1968 era ormai chiaro a tutti che bisognava spalancare alle produzioni regionali italiane spazi commerciali al di là dell’Oceano. Ciò che mancava era un progetto comune sostenuto dal complesso degli attori sociali. Per questo alcuni settori del sistema produttivo agro-alimentare nostrano pensarono di collegarsi all’immagine del pugilato proponendolo come un sigillo di qualità. Per questo sui nove aerei che portarono in America i tifosi italiani per l’incontro con Griffith, tutti erano convinti che Nino Benvenuti fosse l’uomo del destino. In realtà le cose andarono molto diversamente. Benvenuti vinse, sì, ma in maniera non del tutto convincente. Una parte  del pubblico americano non gradì ma, inaspettatamente, trovò un riscontro perfetto in  un altro pugile italiano, il genovese Bruno Arcari che aveva aperto la riunione vincendo in 4 round contro Pablo Lopez, l’astro nascente della boxe statunitense.

I giornali americani ne parlano, la comunità italo-americana ne fa un beniamino. Alcuni imprenditori liguri ed italiani trovano in lui un Testimonial senza pari con il quale presentarsi sul mercato del Nord America.

Così la Paramount, la maggior industria alimentare americana del tempo, investe un milione di dollari (del ’68) nella distribuzione dei nostri prodotti. Nei quattro anni successivi gli investimenti complessivi salgono a 35 milioni di dollari. Un fiume di denaro che trasforma il Pesto nel manifesto dell’armonia, della perfezione, dello stile. Nasce così “La Repubblica del Pesto”.

Una repubblica indipendente che non ha spiegazioni molto diverse da quelle che i suoi protagonisti, i cinque fratelli Belloni, in arte gastronomica riuniti sotto il marchio “Zeffirino”, si sono dati. Un’avventura coraggiosa che lungamente aveva atteso un marchio degno di questo nome per metterlo su un piedistallo. Non su un piedistallo qualsiasi; ma sul tetto del mondo.

Diventare ristoratori, non ristoratori qualunque, ma su larga scala, fino ad essere a capo di un impero culinario sul quale non tramonta mai il sole, questo era il loro obiettivo. Un obiettivo raggiunto anche grazie al Pesto. Un prodotto del tutto coerente con i riferimenti culturali e gli aspetti materiali e pratici veicolati dal loro impegno e, tuttavia, visto dalla platea internazionale dei consumatori come separato e talvolta contrario rispetto alle caratteristiche più autentiche della Terra che lo aveva originato. Infatti, nonostante i programmi di valorizzazione reciproca, nell’immaginario collettivo di molti paesi la nozione di buon gusto non si trasferisce automaticamente dal Pesto alla Liguria.

Dopo Genova, il miglior pesto del mondo si mangia a Las Vegas. Preparato nel mortaio, nella sede storica di “Zeffirino” in via XX Settembre 20, viene spedito in aereo e in meno di 24 ore è sulla tavola di un consumatore esigente disposto a pagare fino a 500 $ per un pranzo.

Però il ristorante si chiama The Venetian – Il Veneziano, in ossequio alla città che nella fantasia di mezzo mondo è il simbolo  della ricchezza, dello stile e della qualità. Come risarcimento alla Liguria non restano che le hostess al piano. Nere come l’ebano sanno qualche parola di Genovese. Un atto di prosecuzione di un mondo che esiste solo all’ombra del basilico.

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Deracchi!

Deracchi! Con questo termine, ruvido e sconnesso, come le macerie che si lasciava dietro, la consuetudine dialettale del mio paese identificava i temporali violentissimi e inarrestabili.

Deracco! Appena meno di un Derûo d'ægoa, (un diluvio) molto, ma molto di più, di un semplice temporale.

Deracchi! Capaci da soli di creare allagamenti. Quelli che oggi, con un gioco di rimandi al negativo che pesca dritto nella simbologia del terrore armato, sono identificati come: bombe d'acqua!

Nel mondo tradizionale dunque, i Deracchi erano ben conosciuti e molto temuti, per questo erano rispettati. Siccome di solito si verificano in periodo di sbalzi climatici repentini, all'inizio dell'autunno (ottobre) ed alla fine dell'estate (metà agosto), quelle strane giornate di calma piatta che di solito li precedono come gli improvvisi addensamenti provenienti da una ben precisa direzione montana e sospinti da una inequivocabile rotta dei venti erano osservati e valutati con attenzione. Come con diligenza erano mandati a memoria i percorsi fatti dalle ondate di piena. Sempre gli stessi.
Perché l'unico modo per non trovarsi in grave difficoltà contro i Deracchi era quello di evitarli standosene in casa. Anche per difenderla, la casa.

A questo punto avrei voluto dire della mia sorpresa nello scoprire, purtroppo per l'ennesima volta, come ci sia sempre troppa gente che - nonostante la scolarizzazione diffusa, l'informazione puntuale se non precisa, la possibilità di conoscere e capire sicuramente superiore rispetto agli antichi - si fa sorprendere indifesa o impreparata.
Avrei voluto dire del dissesto dei fiumi. Qualche giorno fa, calando dall'alto sulla piana della Scrivia, vedevo l'alveo del torrente disseminato di chiome verde-argentee. Toh, hanno piantato gli ulivi nel corso d'acqua. Invece guardando meglio ho visto che non erano ulivi ma salici. Alberi di una certa altezza e dimensione che sicuramente erano lì almeno da qualche stagione. Poi in quel punto l'acqua ha strappato l'argine e la strada che vi correva sopra.
Avrei voluto dire di questo e di altro ma, come ha rilevato il Sindaco di Genova : “ La Città è malata”. E allora di fronte al momento più tragico che drammatico non parlerò di quanto volevo limitandomi a porre una domanda. A chi di dovere.

Perché per aiutare le vittime del disastro a spalare il fango ed a rimettere in piedi quanto danneggiato o perduto anziché ricorrere ai soliti giovanissimi “Angeli del fango” non si richiamano solidaristicamente per un servizio civilmente utile le centinaia di cassintegrati della regione? I quali, come si sa, sono liberi da impegni di lavoro e retribuiti. Modestamente, è vero, ma pur sempre retribuiti solidaristicamente dalla collettività.

Essere solidali è anche crescere. Nelle responsabilità.

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Giancarlo

Perché vado a caccia di squali? Forse per vincere la paura.
Probabilmente ho sempre provato qualche elemento di angoscia. Già da bambino.
A quel tempo in casa mia c'era un solo libro: I Miti greci. Ricordo che dovevo fare un discreto sforzo per conciliare le diverse credenze che si intrecciavano intorno agli Dèi dell'Olimpo, i quali avevano come sport quello di concedere o negare ai mortali qualsiasi dono desiderato. Quindi stavo bene attento a non citare a vanvera il loro nome nel corso di una conversazione. Non mi conveniva.
Forse era il timore che qualcuna di quelle sinistre previsioni potesse diventare parte della mia realtà a farmi appassionare alle avventure di Odisseo. Nel suo mondo c’era sempre qualcosa di crudele e contorto. I sogni si rovesciavano in incubi, e toccava a lui, Ulisse, difendere l’aspirazione sua e degli umani a nascere e morire come individui in un universo in cui, per un comune mortale, era impossibile a distinguere il sopra dal sotto. Forse la vedevo davvero così a soli dieci anni.

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