FRANCO MONTEVERDE. Intelligenza e cultura
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- Pubblicato Domenica, 16 Agosto 2020 19:35
- Scritto da Pier Cristiano Torre
In queste giornate di metà estate dominate da notizie che spiccano o per pochezza di contenuti o per la preoccupazione che suscitano mi pare il caso di rivolgere lo sguardo al ricordo di una figura che molti rapporti ha avuto con la nostra Associazione.
Mi riferisco a Franco Monteverde, scomparso l'anno scorso, per molti anni direttore dell'Istituto Gramsci, noto al grande pubblico forse più per la sua esperienza di assessore al Comune di Genova negli anni '70 che non come uno dei più acuti osservatori della realtà socio-culturale della regione degli ultimi 25 anni.
Eppure molte delle argomentazioni sono ancora quanto di meglio si possa disporre. Interessato a tutto ciò che rientrasse nei campi della cultura e dell'intelligenza dava grande importanza alla nozione ed al concetto di verità.
Una volta mi disse che compito di un intellettuale era quello di dire la verità. Non quella esatta, neppure quella giusta,formale, ma quella vera necessaria per dare soluzione ai problemi.
Una lezione che mi è rimasta impressa nella mente.
Così come in grande evidenza metteva la necessità di condurre una vita militante senza la quale non si potevano comprendere le tante realtà nelle quali si articola la società contemporanea né difendere libertà e diritti.
Non deve allora sorprendere che in un momento come questo ricordiamo Franco Monteverde avendo in Lui un'ispirazione.
Da Campi a Cornigliano. Questa è la strada da seguire.
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- Pubblicato Domenica, 05 Luglio 2020 16:12
- Scritto da Pierluigi Patri
Da molto tempo sosteniamo la necessità di utilizzare l'area occupata dall'ex-ILVA (oltre 1.000.000 di metri quadrati) per insediarvi attività che producano maggiore ricchezza culturale ed economica per Genova ed i territori limitrofi (1) (2) (3).
Nonostante il nostro impegno per sensibilizzare le Istituzioni in tal senso sino ad ora pare non si sia mosso alcunchè.
Ci ha confortato l'articolo pubblicato su Il Secolo XIX del 3 u.s.
"Ci serviva più spazio e quei locali [ il capannone di 11.500 metri quadrati sulla riva destra del Polcevera, vicino al Ponte ricostruito, dove ha sede il Bic ] sono adatti al laboratorio di robotica che stiamo sviluppando " ha spiegato il Direttore dell'Iit Giorgio Metta, Ingegnere elettronico (laureatosi nell'Ateneo Genovese).
In quei locali sorgerà il centro di sviluppo e costruzione di prototipi robotici di tipo industriale. Cioè un'attività ad altissimo contenuto di conoscenza ed elevatissimo valore aggiunto !
Proprio il tipo di sviluppo indispensabile per il miglioramento culturale ed economico della nostra Terra.
Ma cosa ha contribuito a decidere per quella sede?
Lo ha puntualizzato il Direttore :"E poi, vedendo i progetti di riqualificazione della zona della Val Polcevera, lo sviluppo dell'area è interessante anche sotto il profilo urbanistico."
Ma se non fosse crollato il ponte ci sarebbe ugualmente stata questa promettente evoluzione?
È evidente che il contesto urbano ("il profilo urbanistico") riveste un ruolo importante per ospitare adeguatamente scienziati e tecnici dei vari livelli che lavoreranno al Bic.
Dobbiamo considerare il crollo del ponte come un evento propizio ? Ci voleva quel disastro per rendere appetibile quella zona ?
Perchè non pensare alla riqualificazione urbanistica anche dell'area ex-ILVA?
Le considerazioni riportate da un articolo su La Repubblica rendono logica l'intenzione di acquisire almeno 500.000 metri quadri per le necessità di sviluppo della Città.
Basta riflettere sulle rispettive superfici per capire le potenzialità dell'area di cui dispone l'acciaieria.
Il Bic ha un'estensione di 11.500 metri quadrati e quella piccola area ha consentito di localizzarvi laboratori d'avanguardia; pensate,cari lettori, cosa si potrebbe realizzare su un'area di quasi 50 volte !
Non solo la "... costruzione di prototipi robotici ..." ma anche la produzione in serie !
E la prossimità del Porto ed aeroporto consente un'esportazione "a Km zero".
Covid 19. Uno strano caso in Liguria.
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- Pubblicato Lunedì, 29 Giugno 2020 15:27
- Scritto da M. Spinola
Sabato 27 giugno 2020 ore 12. Loris Maieron, sindaco di Busalla, informa la cittadinanza che nel Comune si sono registrati 12 casi di positività al Coronavirus.Uno come ricovero ospedaliero, gli altri in osservazione al domicilio. Nel pomeriggio dello stesso giorno la Regione Liguria informa che sul territorio regionale si sono registrati 5 casi di positività.
Può essere che i dati forniti dal sindaco Maieron fossero riferiti ad una casistica già nota da qualche giorno e quindi fossero già stati inseriti nei conteggi ufficiali, ovvero, che in attesa delle conferme di rito fossero come sospesi per poi essere registrati il giorno successivo all'ufficializzazione.
Eppure se si guardano i dati relativi alla Liguria per il periodo 22-28 giugno i 12 di Busalla semplicemente non esistono.
Il 25 giugno, è vero, vengono registrati 14 nuovi contagi ma sono ascritti ad una residenza per anziani della città di Genova. Il 22 giugno i contagi dichiarati sono 8, il 23 sono 4, il 24 solo 1, il 25 - come detto- 14, il 26 ne vengono comunicati 4, il 27 arrivano a 5 ed il 28 ammontano a 4. Dunque dove sono finiti i 12 casi denunciati da Maieron? Ci sono solo tre possibilità.
Sono stati dimenticati da qualche parte.
Sono stati spalmati su più giorni. Se sì, perché?
Oppure i dati vengono ufficialmente conteggiati in tempi e modi diversi rispetto a quanto dichiarato di volta in volta a livello di comunità.
Naturalmente tutto può essere. Tuttavia, per maggiore chiarezza e rispetto verso l'opinione pubblica, sarebbe davvero utile conoscere i meccanismi di calcolo adottati a livello regionale ed i singoli dati divisi per Comune. Invece, come notato da Luca Ricolfi, anche a livello nazionale la faccenda è un po' confusa; i dati dei Comuni non sono disponibili e la comprensione dei rimanenti non è proprio di tutta evidenza.
Non sarà molto importante però, accanto ai dubbi di Ricolfi sulla gestione dell'epidemia a livello nazionale, restano i miei di dubbi su questo strano caso ligure di fronte al Covid 19.
Part-time e Smart working
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- Pubblicato Domenica, 31 Maggio 2020 09:49
- Scritto da Dr. A. C.
Verso la fine degli anni 80 del secolo scorso, fui uno dei primi a Genova, e il primo nel Gruppo cui apparteneva la mia azienda, a introdurre un numero limitato di contratti a part-time. Le interessate erano giovani mamme e, prima di tutto, persone serie. Pur lavorando per il 50% del tempo (l’unica misura prevista in quei primi tempi) loro “produzione” fu infatti ridotta in misura ben minore dell’orario. Lavoravano con maggiore serenità e utilizzavano meglio il tempo di lavoro, ricevevano una retribuzione leggermente superiore al 50% per il minor carico fiscale.
Tutto bene? Niente affatto: mi guadagnai molte rampogne dai colleghi e dall’Intersind, la rimpianta “Confindustria dell’IRI”, tutti preoccupati di veder scardinata l’organizzazione aziendale e certificato un qualcosa che sapeva di assenteismo autorizzato. Passato un primo periodo di mugugno, tutto funzionò molto bene. Ancor meglio funziona oggi, dato che il part-time può essere usufruito per percentuali minori di riduzione. In questo modo la “produzione” delle persone è praticamente uguale a quella del lavoro full time e la retribuzione percepita pure.
Oggi il part-time è qualcosa di acquisito, le preoccupazioni di un tempo ridotte al minimo. E farebbero sorridere se non sentissi spuntare critiche analoghe per una forma di lavoro che in questi tempi di quarantena è stata imposta alle aziende non sempre pronte, tecnicamente e psicologicamente, ad accettarlo: lo smart-working, lavoro agile o più correttamente, il lavoro da casa.
Il lavoro da casa, o da remoto, nacque molti anni fa in UK come strumento per combattere lo spopolamento delle isole e delle zone più remote della Scozia. In Italia ha stentato ad affermarsi e se ha avuto uno sviluppo è stato in occasione di catastrofi: il COVID19 è piovuto addosso alle aziende, chiudendo in casa i dipendenti e rendendo necessario utilizzare questa modalità di lavoro.
Va detto che Genova, dopo il crollo del ponte Morandi, è stata all’avanguardia nell’introdurre questa importante innovazione, per ridurre gli spostamenti dei dipendenti e alleggerire il traffico cittadino, privato della sola via di scorrimento. Si è trattato di imprese o fondazioni altamente tecnologiche, principalmente insediate nell’area degli Erzelli, che hanno reagito senza problemi all’innovazione organizzativa. Per capire l’importanza dello smart working, è interessante citare il caso di una signora genovese, trapiantata in Svezia, ma bloccata a Genova per la pandemia. La signora è assistente personale di un altissimo dirigente di una azienda d’importanza mondiale: opera senza problemi a più di duemila chilometri dalla normale sede di lavoro.
La pandemia potrebbe e dovrebbe essere l’occasione per dare l’impulso definitivo allo smart working.
I vantaggi sono evidenti: meno affollamento sui mezzi pubblici e meno traffico pendolare. Minori costi per le mense, risparmio sugli spazi e le infrastrutture.
In uno studio del 2015 l’Università di Stanford aveva stimato per un'azienda di servizi un aumento della produttività del 13% grazie a questa modalità di organizzazione del lavoro. Uno studio più recente che ha coinvolto 250 persone operanti in 21 imprese, piccole medie e grandi, ha evidenziato questi dati medi annui per dipendente: 2.400 chilometri percorsi in meno, sette giorni guadagnati e 270 chili di anidride carbonica non immessi nell’aria con un risparmio di circa 1.300 euro a dipendente. Tra i benefici dello smart working, inoltre, c'è il poter realizzare un migliore work-life balance ed una conseguente diminuzione dello stress da lavoro.
Ovviamente non tutti i lavori si prestano, ma nella maggior parte dei casi si potrebbero limitare le presenze fisiche negli uffici allo stretto necessario, per il resto la tecnologia aiuta e risolve. Purtroppo non tutto il mondo del lavoro italico (datori di lavoro e sindacati) sembra pronto a questo salto organizzativo e culturale. È vivo da entrambe le parti il pensiero che possiamo banalmente definire: “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”.
Per il sindacato significa che il lavoratore a domicilio possa essere considerato di serie B rispetto ai presenti in ufficio e, soprattutto se donna, messo in disparte nelle politiche retributive e di crescita professionale.
Per il datore di lavoro resta il sospetto che il lavoro a domicilio sia una possibile sinecura, un modo autorizzato di lavorare con il minimo impegno. Questo ovviamente può accadere, ma mi sia consentito di dire sottovoce che il “lavativo” resta tale anche se sta fisicamente in ufficio; così la sua assenza se non altro non è di disturbo e provocazione per i colleghi.
Battute a parte, la gestione del lavoro da casa non è diversa da quella del lavoro tradizionale. Fondamentale è la capacità del management di dare obiettivi chiari, controllare tempi e modi del loro raggiungimento, saper premiare, o punire, in base ai risultati. Purtroppo per esperienza diretta (anche su me stesso), so che se già non è facile dare obiettivi ben strutturati, è faccenda scomoda darsi parametri e modi di controllo; quasi indigeribile, infine, riprendere e se del caso punire chi non raggiunge l’obiettivo. Anche premiare può essere scomodo se non ci si distacca completamente, e non è così semplice, dalla soggettività.
Per concludere, credo che la diffusione dello smart-working sarà una dei pochi lasciti positivi della pandemia, se imprese, sindacati e lavoratori ne comprenderanno appieno i vantaggi e sapranno adattarsi al nuovo modo di operare. Sarà necessario dotarsi degli strumenti informatici necessari, ma questi sono ormai largamente disponibili, e il loro costo sarebbe assorbito dai molti risparmi cui abbiamo accennato. Più complicato sarà formare le persone e abituarle a lavorare in un contesto diverso da quello cui erano abituate da sempre. Ma la vera sfida e la chiave del successo sarà formare dei dirigenti e capi in grado di guidare le risorse umane senza averle fisicamente sotto controllo.