Liguria
- Dettagli
- Scritto da La Redazione
- Categoria: Biblioteca
- Visite: 364
È la Liguria terra leggiadra.
Il sasso ardente, l’argilla pulita,
s’avvivano di pampini al sole.
È gigante l’ulivo. A primavera
appar dovunque la mimosa effimera.
Ombra e sole s’alternano
per quelle fondi valli
che si celano al mare,
per le vie lastricate
che vanno in su, fra campi di rose,
pozzi e terre spaccate,
costeggiando poderi e vigne chiuse.
In quell’arida terra il sole striscia
sulle pietre come un serpe.
Il mare in certi giorni
è un giardino fiorito.
Reca messaggi il vento.
Venere torna a nascere
ai soffi del maestrale.
O chiese di Liguria, come navi
disposte a esser varate!
O aperti ai venti e all’onde
liguri cimiteri!
Una rosea tristezza vi colora
quando di sera, simile ad un fiore
che marcisce, la grande luce
si va sfacendo e muore.
di Vincenzo Cardarelli
(Tarquinia 1887-Roma 1959)
Nota: ho pubblicato questa poesia per "colpa" di un mio insegnante di Lettere al Liceo Scientifico "Calasanzio": il Professore Renato Dellepiane.
L'ha inserita nel Suo libro "VITA DI SCUOLA SCUOLA DI VITA" e, ritrovandovela, non ho potuto fare a meno di riproporla a coloro che frequentano questo sito.
"Liguria" dovrebbe far riflettere e risvegliare l'amore e l'orgoglio per la nostra Terra; è stata scritta da un foresto che -forse per questo- ha saputo coglierne la bellezza troppo spesso non percepita dai Genovesi.
Quale ruolo per Genova?
- Dettagli
- Scritto da Peter Beffroy
- Categoria: Politica
- Visite: 477
Avverto il Lettore con chiarezza.
Non è mia intenzione prendere le parti ed il posto di nessuno, tantomeno assumere una vicinanza od una distanza verso i singoli candidati alla elezione per il Sindaco di Genova e le loro eventuali proposte. Tuttavia non posso tacere che nella rubrica «Il dibattito» sul numero 19 della rivista «La Città», giornale di impegno civile, ho trovato un articolo titolato: «Cinque punti per cambiare Genova».
Primo: Tornare a crescere.
Secondo: Una città educativa.
Terzo: Una città giusta per tutti.
Quarto: Sostenibilità e diritto alla città.
Quinto: Una città più grande e più vicina.
Ognuno di questi argomenti affronta un nodo decisivo per il futuro di Genova ed almeno quattro - il primo, il terzo, il quarto ed il quinto - sono al centro dell’impegno di A.R.Ge. da circa tre anni .
Evidentemente vi sono ragioni che finalmente sono state comprese non solo da chi, come noi, federalista per natura, si batte per un diverso modello di Città e di regione dentro, non contro, un’Italia rinnovata, ma anche da quella parte culturale che, impegnata su altri fronti, solo saltuariamente si preoccupava di costruire un immaginario credibile intorno a cosa Genova è stata per poi immaginare, e dire, dove vuole andare.
Naturalmente, per ogni singolo tema, la lettura proposta della nostra Associazione in parte si discosta da quella offerta ai lettori de «La Città». Ma quelli trattati sono temi-obiettivo e dunque è persino necessario che ogni soggetto sia portatore della sua propria esperienza. Anche opposta. L’essenziale, mi pare, è che questi argomenti una volta per tutte vengano immessi nel dibattito pubblico.
La rivista diretta dal Prof. Luca Borzani lo ha fatto. Benvenuta nel pieno del maelström di Genova. Speriamo altri seguano.
Per uscirne c’è bisogno di aprire un dibattito critico coinvolgendo le migliori energie intellettuali della Città sfidando, con ciò, i raggruppamenti di interessi più conservatori. Che sono tanto di qua come di là. A sinistra, a destra e nel centro.
In quanto alla posizione dell’Associazione Repubblica di Genova i Soci mi scuseranno se, prendendo a riferimento lo schema del citato «n. 19», mi permetto di riassumerla nel modo seguente.
Su alcuni punti, come il primo ed il terzo, siamo andati abbastanza avanti coinvolgendo soggetti diversi a livello locale come nazionale.
Ormai è chiaro che «tornare a crescere» non è una questione demografica ma intellettuale; conoscenza e ricerca sono le linee guida. L’insediamento di centri di ricerca e di nuove imprese produttive ad alta tecnologia e basso consumo di spazio è una necessità impellente. Nessuna città del terzo millennio può cambiare di scala se non elimina il problema delle fabbriche.
Circa «una città giusta per tutti», obiettivo al quale noi sostituiamo quello di una «ri-Generazione della Città», pensiamo che vi siano due linee di azione. Attrarre giovani preparati e trattenere i nostri al seguito dell'insediamento di nuove attività. Quindi ristabilire un rapporto fra le generazioni partendo da quello che alle due estreme categorie manca: confessare all'altra ciò che di quella non piace e ciò che si sarebbe disposti a riconoscerle.
Sul quarto, «rapporto con la città-porto» concordiamo in pieno. Genova, anche quella della Repubblica, era ed è una città con porto non una città portuale. In più un eccessivo sviluppo portuale è contrario all’espansione dell’industria tecnologica. Urbanisticamente i due soggetti non possono coesistere se non al prezzo di un ridimensionamento di quello marittimo.
Sul quinto, «una città più grande e più vicina», proponiamo una chiave di lettura più intimamente connessa a Genova antica, richiamando in questo la metafora della «città-virtuale», circondata com’era da comunità autonome ma partecipative. Principio oggi rievocato nell'ipotesi della città fatta di altre città.
Del resto la concentrazione degli interventi di recupero urbano nelle aree centrali non ha permesso di attivare le «Delegazioni», che già nel titolo incorporano l’attribuzione di una inferiorità di specie, incanalando le loro energie in una opposizione che sta avviandosi ad essere radicale ed a raggiungere forme di intensità psicologica irrecuperabili. Oppure recuperabili in un contesto di post-città.
Cioè la fine della Genova che ancora immaginiamo possibile.
Una conclusione brusca, al limite della sopravvivenza.
Ma il tentativo di ribaltare questo risultato riporta ai temi poco prima introdotti.
Totò: è professore che insegna, è studente che studia
- Dettagli
- Scritto da Peter Beffroy
- Categoria: Costume e Società
- Visite: 399
Dalle pagine de “Il Secolo XIX” edito il 28 c.m. si apprende come scolari e genitori, approfittando dell’astrattezza dell’insegnamento a distanza, ne stravolgano le regole concordate rendendo la vita assai difficile agli insegnanti. Questi ultimi richiamano, ammoniscono, minacciano sanzioni. Alla fine, quel che si capisce, è il fallimento della didattica a distanza.
Verosimilmente le cause sono molteplici e la gran parte di esse sfuggono alla mia comprensione. Qualcosa però intravedo. L’istituzione scuola non sembra aver compreso la portata della rivoluzione telematica in corso. La tecnologia fisicamente separa le persone purtuttavia le mette in confronto diretto. Cioè elimina totalmente la funzione che nelle attività in presenza è riconosciuta alla figura del mediatore. Da questo punto di vista il confronto on-line tra docente e classe si spezzetta in una quantità di scontri diretti aventi tutti le caratteristiche di un corpo a corpo. Uno scambio a distanza ravvicinata nel quale nessuna delle due parti in attrito può far valere la protezione di un ruolo dato precedentemente. Vince chi ha maggiore autorevolezza, non maggiore autorità.
Gli insegnanti non hanno grande autorevolezza. Spingendo la questione fino al limite della provocazione bisognerebbe dire che neppure possono averne essendo stati formati da quella stessa scuola della quale adesso si lamentano.
Genova ne sa qualcosa.
Lungo i primi tre quarti del Novecento ricca di spunti, ed articolata su più livelli fra pubblico e privato, l’offerta formativa della Città è stata progressivamente logorata fino a disperdere sul finire di quel secolo - nel nome ministeriale del programma, della lotta di classe e del diritto alla promozione scolastica, non sociale - le sue migliori competenze.
Istituti di primissimo piano, anche se privati e cattolici, sono stati prima diminuiti, accusati di conferire un diploma a chiunque purché ricco abbastanza da pagare la retta, e poi portati alla chiusura per far posto alla “scuola laica”. La quale fa pagare tutti, anche quelli che non ci vanno, e diploma tutti, soprattutto quelli che, per una ragione o per l’altra, non la frequentano con profitto.
Ma allora, se la questione rimonta la storia recente, vien da chiedersi perché si sia reso possibile il fallimento dell’istituzione scuola.
La risposta è così scontata che quasi neppure la manifesto. Soldi, bilanci.
Invece dirò che con la democraticizzazione della società si è voluto democraticizzare anche la scuola. In sé, tutto bene. Soltanto che il percorso adottato non ha puntato a permettere al maggior numero di persone possibili di accedere al miglior livello formativo attuabile, selezionando in questo modo i più capaci e fornendo agli altri meno attrezzati una preparazione comunque adeguata a salire la scala della vita. Viceversa ha puntato a fornire alla platea dei suoi utenti un servizio indifferenziato tanto che, oggi, la scuola viene e può essere intesa come una delle diverse attività che inevitabilmente si succedono nella vita di un uomo.
Nella pratica, naturalmente, non tutto è andato a finire così. Ci sono scuole e scuole e dire dove hai studiato equivale a definire chi sarai dopo.
Tuttavia questo concetto non è molto condiviso se un uomo di sicuro livello come Roberto Cingolani, Ministro della Transizione Ecologica, ha manifestato malumore circa l’insegnamento della storia antica, quasi quella materia distogliesse energie e tempo allo studio di discipline più specialistiche. Ma se il problema è questo non bisogna tagliare le materie ma ridefinire i calendari e prolungare l’anno scolastico.
Il punto in argomento non sono le monoculture, per quanto specializzate, ma la capacità di ragionare.
Così si arriva al momento iniziale nel quale l’insegnante-genitore ammonisce lo scolaro indisciplinato mentre dall’altra parte dello schermo lo studente-figlio sbeffeggia un collega del suddetto ascendente.
Come finisca la storia al suono della campanella non è dato sapere. Forse con una bella riunione di famiglia, ognuno attorno al suo proprio cellulare.
Ignoranti quanto basta ma molto specializzati.
Ponte Giovanni Rebora - O Profesô
- Dettagli
- Scritto da La Redazione
- Categoria: Storia e geografia
- Visite: 380
Sino ad oggi era il "ponte di quota 40"; nome anonimo e freddamente descrittivo per la struttura che a San Pier d'Arena collega corso Magellano a via Gian Battista Monti.
La Giunta Comunale ha deliberato (finalmente) di intitolarlo al Professore Giovanni "Gianni" Rebora -Genovese di San Pier d'Arena- che ha abitato in un civico prossimo al ponte.
Lo riteniamo doveroso riconoscimento ad un Uomo e Docente dell'Università di Genova che si è sempre distinto per la grande cultura, lo spirito aperto, la capacità critica e l'affabilità con cui affrontava e divulgava gli argomenti trattati.
La Sua morte ha rappresentato per tutti noi una grossa perdita ma il Suo ricordo è intatto e Gli siamo riconoscenti per quanto ci ha trasmesso col Suo modo elegantemente scanzonato di rapportarsi, distante da qualsiasi altezzoso atteggiamento accademico.
Grazie di tutto, Sciô Profesô.
P.S. la delibera del Comune è giunta a buon fine dopo un lungo ed impegnativo percorso burocratico, intrapreso e tenacemente perseguito da Filippo Noceti.
Pagina 12 di 13