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- Scritto da Peter Beffroy
- Categoria: Storia e geografia
L'immagine più comune per descrivere la vertigine è quella della sospensione nel vuoto.
Alla sola vista del precipizio che si apre giusto qualche centimetro al di sotto dei propri piedi, chiunque prova quel senso di disagio comune a coloro i quali soffrono di vertigini.
È praticamente impossibile resistervi. Oppure no?
La storia risponde che almeno un'Etnia aveva una particolare passione per le dislocazioni sospese nel vuoto: i Genovesi.
Girando per gli avamposti di quello che fu il Dominio Genovese infatti si trovano le antiche vestigia di un sistema di fortificazioni tutte poste al limite dei confini imposti dalla fisica: sull'ultimo lembo di terra, appena prima del vuoto.
Il fatto ha sempre suscitato la mia curiosità fin da ragazzo quando, con mezzi di fortuna, mi arrampicavo fino all'oggigiorno famoso Castello della Pietra.
L'estremo avamposto della Repubblica di Genova nell'entroterra verso settentrione. Un forte, sospeso fra due speroni di roccia a dominare la strada.
Quello che non capivo allora e che adesso so è che la casa è un po' lo specchio dell'anima di chi la abita. Allora, questa costruzione orgogliosamente sospesa nel vuoto può essere bene intesa come qualcosa di speciale; la metafora, il romanzo, della maniera di stare al mondo di quelle generazioni che sarebbero per questo diventate famose. Da soli!
In seguito mi è venuto in mente di vedere se in giro per il mondo ci fosse qualche cosa di simile.
Ho trovato una sola costruzione altrettanto memorabile: il Castello inglese di St Cirq Lapopie, anche lui fra due speroni di roccia.
Ma questo non basta certo a pareggiare il conto.
Chi conosca il sistema degli insediamenti militari dell'antica Repubblica sa che la soluzione più diffusa è quella del controllo diretto delle vie di comunicazione intrecciando le leggi della fisica con quelle della strategia militare.
È questo il caso del Castello di Piene-Haute nelle Alpi Marittime. “L'imprendibile”.
Un incredibile avamposto millenario sistemato in agguato sull'ultimo sperone di roccia sopra un abisso di 600 metri. Collocato al limite estremo di una minuscola frazione montana di 60 abitanti è stato totalmente dimenticato dal 1815, data della interrotta sovranità della Repubblica di Genova.
Si è salvato recentissimamente dalla totale rovina per l'intervento di una famiglia di “Bénévoles” francesi che, consci del ruolo che il castello riconosceva alla località, ha deciso di acquistarlo e di rimetterlo in sesto. L'impresa è al limite della temerarietà. I proprietari non sono ricchi.
L'edificio è così malandato per il prolungato abbandono che può essere usato solo in estate inoltre, proprio per la sua posizione, può essere raggiunto solo a piedi lungo uno strettissimo sentiero in bilico sul crinale. Ce la faranno? Chissà.
Chi invece ce l'ha fatta è il Castello di Roquebrune; “Le Sublissime”, data la bellezza.
A strapiombo sulla città omonima costruita a livello del mare, il Castello monta la guardia. Costruito alla fine del X secolo dal Conte di Ventimiglia è passato alla Repubblica di Genova che vi teneva una guarnigione ed un funzionario amministrativo con carica annuale.
La cosa è interessante perché spiega quale fosse l'elemento guida del sistema pubblico genovese: la leggerezza. Difatti, pur essendo un punto imprescindibile di difesa e controllo economico del territorio, l'organico totale era di soli 8 uomini. Un graduato con competenze militari e civili e 7 arcieri.
Da secoli appartiene ai Grimaldi di Monaco che lo rimaneggiarono più volte fino a che il “maschio” vero e proprio, prima collegato al resto della fortezza munita di sei porte, divenne il castello ed il resto della piazzaforte l'attuale abitato. Del passato repubblicano, fatte salve le scarne indicazione sulla guida, è rimasto poco.
Come al solito per la strana abitudine dei Genovesi a dimenticarsi dei luoghi che li hanno resi celebri.
Dati il fascino e l'importanza di questi manufatti sarebbe opportuno riscoprirli.
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- Scritto da Peter Beffroy
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Porta il nome di Fer a causa della durezza del suo legno estremamente difficile da tagliare.
In aggiunta porta con sé la definizione di Servadou che in Occitano, la lingua che gli appartiene, significa “che si conserva bene”.
In queste relazioni percettive c'è tutto il segreto del Fer Servadou, un vitigno antichissimo trasportato agli inizi del Medio Evo dai Paesi Baschi spagnoli nella regione francese dell'Aude: la terra dei Catari.
Forse per queste sue origini eretiche oggi, pur essendo presente in diverse zone vinicole del Sud-Ovest francese, non vi figura con il suo vero titolo ma con quello di altri vitigni prevalenti in quelle singole zone. Con il suo nome e cognome, è un oggetto misterioso, resiste appunto solo nell'Aude dove è diventato un simbolo: quello della rivoluzione paesana.
Rivoluzione contro la globalizzazione dei gusti e dei sapori in agricoltura, certo. Ma in questa regione controversa di insurrezioni, di rivolte e di controrivoluzioni, dove lo spirito di antiche questioni non si è mai sopito del tutto e dove ogni nuovo problema si esprime a partire da una geografia e da una sociologia essenzialmente contadina, la rivoluzione paesana afferma una volta di più l'antagonismo fra l'autonomia e l'indipendenza di chi vive nel suo e del suo ed il progetto burocratico e massificatore del potere politico ed economico: doveri da imporre e privilegi da mantenere. In altri termini il confronto secolare fra chi mette sul piatto della bilancia quello che vale e chi vi contrappone quello può.
Il confronto attuale tende a contrapporre la volontà degli agricoltori a coltivare e vendere secondo il principio della localizzazione - cioè secondo il criterio che ogni prodotto vale tanto quanta è la sua unicità biologica, una unicità che per transito contemporaneamente gli arriva e ricade sul territorio di riferimento - a quella della economia standardizzata e della sua connotazione più indecifrabile: la tipicità.
Un ossimoro; la sintesi impossibile fra il particolare assoluto e la conformità comune a tutti.
In questa polemica il Fer Servadou, ripresentato coerentemente con il suo nome e cognome, è il simbolo forte di una comunanza di modi, di lingua, di costumi, di tradizioni ed ovviamente di produzioni e di mercati.
Al Sud-Ovest della Francia il confronto socio-politico ha sempre per argomento il frutto del lavoro. E la contemporaneità non ha cambiato le cose. Coltivato in purezza il Fer Servadou dona bassa resa e grandissima qualità. In tutto il dipartimento dell'Aude sono soltanto due i vigneti coltivati a Fer Servadou.
Ho chiesto ad uno dei proprietari se, stante la limitatezza delle coltivazioni, non tema che con il progredire del confronto e la inevitabile notorietà internazionale del vitigno l'industria viti-vinicola la spunti degradando il Fer Servadou da simbolo dell'autonomia paesana ad oggetto del consumo di massa.
Mi ha risposto che il Fer Servadou è il simbolo della comunità, spetta quindi alla comunità difenderlo o abbandonarlo. Lui, al massimo, può tenerlo in vita il tempo necessario alla collettività locale per fare la sua scelta. Non di più.
La risposta mi ha rimandato poco distante, al grande altipiano carsico del Larzac; la terra del Regno monastico-militare dei Templari.
Nel Larzac da circa trent'anni gruppi di volontari sono impegnati nel recupero dei paesi-fortezza sui quali era articolato l'impenetrabile Regno dei Templari.
A Sainte Eulalie de Cernon, l'antica capitale (1152-1307), i 200 abitanti si sono tassati per restaurare integralmente la grande cinta muraria e l'edificio della Commanderie.
Uno dei tanti esempi concreti in cui in Francia una comunità storica ha cessato di manifestarsi a livello del ricordo per riproporsi su quello dell'iniziativa.
A partire da questa constatazione credo che la Comunità genovese e ligure dovrebbe cominciare a porsi qualche domanda.
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- Scritto da Peter Beffroy
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Il profumo degli alberi di eucaliptus proveniente dai giardini delle ville di Miramar che entra nell'abitacolo della macchina mi avvisa che sono quasi a casa. Ancora 25 chilometri lungo la stretta cornice rocciosa a picco sul mare.
La strada si snoda tortuosa in un panorama che da un lato propone una bassa catena montuosa cosparsa di guglie rocciose dal colore rossastro, del tutto simili a quelle della Monument Valley, solo che qui alla base dei pinnacoli vi è una fittissima vegetazione - fatta di pini, alberi di mimose, una particolare varietà di quercia quasi ignifuga, ginestre ed arbusti sempreverdi – che inserendosi fra calanchi e scogliere raggiunge il mare. A pelo dell'acqua insenature, grotte, calette dalla sabbia color albicocca.
Un scenario naturalistico e balneare famoso per essere il più ben fatto del mondo.
Adesso la strada è prevalentemente pianeggiante, sono quasi arrivato. Poco prima dell'ingresso del paese incredibilmente un Hotel con il cancello sbarrato. Il cartello dice per cessata attività. Poco prima lungo il margine della strada avevo notato un chiosco con le imposte definitivamente chiuse. Segno che qui la grandine di Hollande non è passata invano.
Ad accogliermi dopo il grande cancello in legno massiccio c'è il giardino con il grande albero del pepe, le due palme, gli arbusti di lavanda, le lantane dai fiori bianchi, fucsia e gialli, gli alberi di limone disposti a siepe a separare questa parte del giardino dall'altra ancora da sistemare. Sono quindici anni che devo sistemarla. Da quando ho comprato, con enorme fatica, da una coppia di anziani tedeschi questo edificio. Una struttura del 1927 che aveva ed ha ancora bisogno di una qualche sistemazione. Ma ci sto bene anche così. Non potrei chiedere di meglio.
Al di là della strada c'è una caletta chiusa sui due lati da una serie di scogli sui quali si distende un prato con un rado boschetto di pini. E poi il posto è tranquillissimo, l'unico in questa parte di mondo dove puoi andare a dormire all'ora che ti pare sicuro di riuscirci.
Poco più avanti ci sono le città dedicate ai Santi: Raphael, Maxime, Tropez.
Dalla prima all'ultima, in condizioni normali, ci sono tre ore e mezza di macchina. La stessa differenza che c'è nella durata della vita notturna. A St. Raphael cessa alle due e mezza, a S.te Maxime alle quattro a St. Tropez alle sei del mattino.
Ho visto che a tre chilometri da casa mia stanno costruendo un residence: l'Alhambra. Come tutte le strutture del posto è disegnato da architetti ed esteticamente poco impattante. A vederle da fuori tutte queste nuove abitazioni sono bellissime. Basse, massimo e raramente due piani, con ampi giardini, piantumati da subito con elementi già adulti, e soprattutto molto ben disegnate. Sono modernissime e perfettamente integrate nell'ambiente che è quasi selvaggio.
L'Alhambra non fa eccezione. Alle sue spalle, separato da un terrapieno nel quale si apre un passaggio a volta molto simile ad un'antica porta fortificata, c'è lo spazio aperto e selvatico del monte. Un particolare questo che richiama alla mente la porta che nelle mura di Genova subito dopo il Belvedere immette in un'altrettanto potente scenario: quello del monte Righi. Una fitta distesa di pini intervallata qua e là da ampie radure, in mezzo alla quale corre un una stradina chiusa ai lati da bassi muretti.
Anche lo stesso panorama dell'Escorial. La prima volta che ho visto l'Escorial ho subito pensato al Righi. Lo stesso ambiente, la stessa stradina che prima sale, poi scende e quindi risale ripidissima sino allo spazio scoperto e selvaggio della sommità.
Il Righi è così. Solo mal tenuto.
Anche qua è così, solo molto ben tenuto.
Allora la citazione spagnola dell'Alhambra non è fuori luogo. Anche a casa trovo citazioni pertinenti. M.me Francesca ha fatto la marmellata con i limoni del giardino. Come sempre una delizia. E come sempre non resterò che pochi giorni. Come aveva detto anni fa un altro tedesco: Bisogna stare lontani dai luoghi nei quali si è stati felici. Da giovani per non perdere la spinta in avanti, da vecchi per non cedere alla malinconia.
Io non sono ancora del tutto vecchio ma ugualmente non resterò. Tornerò in Liguria.
A fare che? Non c'è niente - mi dice M.me Francesca.
Non lo so. Io sono un uomo del Settecento, che abita una casa dei primi del Novecento e vive, male, nel Duemila.
Forse faccio davvero come gli uomini primitivi ai tempi dei dinosauri. Vengo a vedere morire un mondo che non è più il mio.
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- Scritto da Pierluigi Patri
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Ogni tanto ho l’occasione di incontrare un amico che lavora all’estero. Quando ci vediamo iniziamo a parlare delle solite cose che riguardano il lavoro e la vita quotidiana. Poiché è un Patriota risulta inevitabile che si discuta anche della Serenissima Repubblica e degli aspetti politici del momento.
Dato il recente governo italiano abbiamo parlato delle “novità” ad esso riconducibili arrivando a ragionare di cittadinanza come ha fatto recentemente il ministro dell’integrazione.
Chiacchierando di cosa ci sembra giusto o sbagliato gli ho illustrato la mia idea.
Il diritto ad abitare o risiedere sulla nostra Terra può essere riconosciuto senza alcuna difficoltà a chiunque lo desideri purché si attenga al seguente semplicissimo principio : louâ e no ronpî o belin.
Sono sicuro che, chiarito questo principio fondamentale, non ci sarebbero più motivi di malinteso o di discriminazione (vera o presunta che sia). Il principio deve avere anche valore retroattivo lasciando a chiunque 3 mesi di tempo per ottemperarlo. Va da sé che a detto principio dovranno attenersi anche i genovesi (perché i Genovesi rientrano già nei parametri) e nel caso non si adeguassero dovranno cercarsi una residenza altrove.
Per diventare Genovesi -vale a dire ottenere la cittadinanza- non vale né lo ius sanguinis per cui la cittadinanza è basata sugli ascendenti, cioè sul sangue, né tantomeno lo ius soli per cui basta nascere in un qualsiasi luogo per avere il diritto di ottenerne la cittadinanza.
Più semplicemente varrà lo ius fidelitatis.
Chiunque, nato qua o nato là, nato su o nato giù, potrà ottenere la cittadinanza, cioè diventare Genovese, se giura Fedeltà alla Serenissima Repubblica.
Appena finito di esporgli la mia idea ho colto l’espressione di chi sta facendo una rapida valutazione e, all’improvviso, mi ha fulminato chiedendomi “Hai pensato a come far rispettare la regola?”.
Non mi ha manco lasciato il tempo di pensare che ha continuato “Hai presente il Vachero e la Colonna Infame? Beh si farà così!”.
Nel 1628 Vachero Giulio Cesare, traditore prezzolato dai savoia, complottò contro la Serenissima Repubblica. Scoperto venne giustiziato.
La casa che la sua famiglia possedeva vicino a via del Campo, dalla parte di Porta dei Vacca, venne rasa al suolo e la Serenissima vi fece erigere la Colonna Infame su cui venne apposta una targa in marmo che in latino recita “A memoria dell'infame Giulio Cesare Vachero, uomo scelleratissimo, il quale avendo cospirato contro la Repubblica, mozzatogli il capo, confiscatigli i beni, banditigli i figli, demolitagli la casa, espiò le pene dovute.”.
Efficace la proposta del mio amico, non vi pare?
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- Scritto da Peter Beffroy
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La Provincia di Genova e Atina in valle di Comino due territori a contatto. Due territori che a tutti gli effetti possono essere considerati come una sintesi di quei nodi storici dai quali è scaturita la grande ricchezza di energie che dalle epoche passate fino ad oggi ha attraversato l’Italia.
Genova, antico centro di sviluppo attorno al quale fin dall’alba dei tempi si sono aggregate le comunità del circondario distinguendosi così dalla semplice varietà di stirpi. Un’area nevralgica, segnata da una antichissima storia di emancipazione; da terra di contadini e pastori a nuovo emporio di navigatori, artigiani e mercanti, all’incrocio di due importanti percorsi commerciali. Le riviere e da lì verso i porti e le pianure del Sud-Italia; l’entroterra e, attraverso la pianura padana, verso le piazze commerciali di Piacenza e Cremona. Fin dalle origini zona di frontiera fra due civiltà: quella gentilizia dell’Italia centrale e quella selvaggia del Nord alpino in era arcaica; tra la potenza romana e il Nord dell’Europa in epoca classica. Un mondo di cosmopoliti, i Liguri.
Atina, dall’età più antica dei tempi capoluogo della valle di Comino, posizione nevralgica già segnata da un’antichissima storia di autonomia. Da terra di consorzi tribali a nuovo centro di un reticolo di contatti economici e culturali all’incrocio di due importanti vie commerciali. Quella che dall’Adriatico, passando per i monti dell’Abruzzo, giungeva alla piana del Volturno; quella che dal mare pugliese, passando per il Molise, giungeva alla valle tiberina. Fin dalle origini zona di frontiera fra due civiltà: quella terragna e pragmatica dell’Italia del Centro-Sud e quella più variamente frammista dell’Italia tirrenica in era arcaica; tra l’oriente ellenico e l’occidente romano in epoca classica. Un mondo di guerrieri, i Sanniti.
La Provincia di Genova e Atina in valle di Comino sono stati dunque due territori intrinsecamente legati da una vocazione allo scambio e dalla capacità di lasciare segni: nel paesaggio, nella cultura materiale, nella lingua, nel diritto delle Genti.
Ma è con il ferro che Atina con la sua vallata e Genova con la sua provincia si impongono lungo il corso del tempo in un percorso quasi a staffetta dove confluiscono operatività, progettualità, tecniche ed altri elementi ancora, che potremmo definire indizi di vita, a testimonianza di un ordine speciale in cui confluiscono i diversi momenti che segnano l’intera storia della metallurgia.
A Nord-Est di Atina sorgono i monti della Meta e le Mainarde, con i loro ricchi giacimenti di argento, di rame e di ferro. Da qui nascono le intense attività metallurgiche dei Sanniti sottolineate da Virgilio. L' Atina Potens, celebrata e a lungo temuta dai romani, giacchè i Sanniti portavano con loro il grande segreto della lavorazione del ferro. Per la prima volta, con un sistema di recupero del calore, le temperature di fusione del minerale venivano portate intorno ai 1300 gradi. In questo modo la lavorazione del metallo cambiava dimensione; cessava di essere una pratica e diventava una scienza. Era stata inventata la siderurgia.
L’attività fornisce gli esempi la storia li riassume alla perfezione.
Le ferriere sono un altro momento di trasformazione questa volta legato all’industria ligure di antico regime. Decentrate nell’Oltregiogo, attorno alla ferriere si sviluppa una tecnica, detta del “basso fuoco alla genovese”, capace di ottenere un buona qualità del metallo con un relativo utilizzo di calore.
Queste matrici lontane, frutto di una memoria, di una appartenenza, troveranno il loro punto di approdo negli anni ’60 quando Genova metterà in forma il futuro con l’entrata in esercizio dei primi modernissimi impianti di laminazione della “Cornigliano”. Se al loro tempo i Sanniti avevano inventato la siderurgia adesso Genova ne era la capitale.
L’era industriale nella modernità dei suoi impianti, nel suo stare al passo con i tempi, nel suo continuo divenire, trasforma il ferro della spada, elemento di prestigio, nell’acciaio dei semilavorati, simbolo della quotidianità popolare. Una quotidianità popolare che porta con sé una profonda metamorfosi della società.
La crescita dell’economia, l’assorbimento della disoccupazione, l’immigrazione dal Mezzogiorno, segni tangibili del “miracolo dell’acciaio” tuttavia lasciano dei vuoti. Ciascuno si trova impegnato a sostenere dei ruoli differenti sul lavoro, in famiglia, nella comunità. Necessità di distinzione e bisogni di concretezza talvolta si sommano, più spesso si contrastano, e il contrasto è tanto più forte quanto la rappresentazione dei valori cardinali sembra svanire per sempre. La crisi morale ripropone la tradizione come uno spazio di preparazione necessario per permettere la comunicazione tra gruppi di persone dai differenti modi di vita.
Nasce così un modello ideale che mette in scena degli uomini nuovi, risultato di una esperienza anteriore, di una conoscenza, di un lungo apprendistato, che sono importanti per quello che effettivamente sono: una risorsa. L’unica disponibile per una società impreparata al passaggio d’epoca.
Si dirà, tutto vero ma sono passati trenta anni da quei momenti.
Si, sono passati trenta anni ma che problema c'è.
Tutto ruota, ma il centro del mondo sta sempre su una via stretta.