Qui una raccolta di articoli sul mondo del lavoro nella nostra Terra.
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- Scritto da Gal Gal
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Trieste riparte perchè "... chiude la ferriera e il porto entra nel futuro."
I Triestini sembrano più pronti dei Genovesi a cogliere il progresso. Sarà perchè a Trieste è localizzato il Centro Internazionale di Fisica Teorica e la sua presenza ha modificato per via subliminale l'attitudine ad immaginare (e realizzare) il futuro?
Sì, a Trieste chiude la Ferriera di Servola costruita 124 anni fa (cioè nel 1896) dalla Krainische Industrie Gesellschaft di Lubiana.
La decisione non è stata rapida, infatti negli anni passati molte amministrazioni (soprattutto quelle guidate da Riccardo Illy e da Debora Serracchiani) hanno spinto per mantenerla attiva.
Alla fine, però, la situazione si è mossa e Servola è stata chiusa per le pressioni sempre più insistenti di Stefano Patuanelli (triestino e Ministro dello Sviluppo economico), Roberto Dipiazza (Sindaco di Trieste) e Massimiliano Fedriga (Presidente della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia).
Sarà mica che una certa mentalità politica e sindacale vede nelle attività della grande industria, in particolare quella pesante, un bacino in cui attingere iscrizioni e voti?
Sarà mica perchè la sindacalizzazione negli ambienti ad alto contenuto di conoscenza è difficile considerato che vi sono impegnate persone ad elevate possibilità di trattativa autonoma in quanto detengono la conoscenza?
Viene il sospetto che l'attenzione ed il sostegno per le attività a basso contenuto di conoscenza sia il sistema adottato per mantenere il proprio ruolo politico e di intermediazione; tutto a pesante discapito della ricchezza culturale ed economica della comunità.
Sarà mica che il miglioramento sociale complessivo viene "venduto" per il tornaconto personale e delle organizzazioni di appartenenza.
Non c'è dubbio che a Genova come a Trieste ci sia la preoccupazione per assicurare un reddito ai dipendenti delle attività obsolete. Ma se a Trieste è stato trovato l'accordo per sistemare i 640 dipendenti (1 ogni 317 abitanti) altrettanto ed ancora più facilmente si può fare a Genova nell'ex-ILVA con 1 dipendente ogni 480 abitanti ; organizzando la riqualificazione dei dipendenti sarà possibile re-impiegarli nelle attività che verranno insediate su quel 1.000.000 ed oltre di metri quadrati occupati da uno stabilimento non adatto al nostro territorio.
Riuscire in questa impegnativa riconversione comporta un grande impegno per neutralizzare l'habitus assistenzialista-statalista sedimentatosi in decenni di aziende statali; l'apparente attenzione al sociale ha ancora gioco facile per la presa immediata ed acritica su la parte di popolazione con livelli di conoscenza poco spendibili nella trattativa con la "controparte".
Ricerca, conoscenza, alta tecnologia creano ricchezza culturale , sociale, ambientale, economica.
P.S. by the way (tànto pe dî) : a Torino sorgerà l’istituto per l'intelligenza artificiale: ricadute fino a 200 milioni l’anno. Qui continuiamo a remenarcelo con l'acciaieria ed i suoi coils. Dove sono i progressisti che immaginano, pianificano e realizzano il futuro per il benessere della nostra Gente?
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- Scritto da Pierluigi Patri
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Da molto tempo sosteniamo la necessità di utilizzare l'area occupata dall'ex-ILVA (oltre 1.000.000 di metri quadrati) per insediarvi attività che producano maggiore ricchezza culturale ed economica per Genova ed i territori limitrofi (1) (2) (3).
Nonostante il nostro impegno per sensibilizzare le Istituzioni in tal senso sino ad ora pare non si sia mosso alcunchè.
Ci ha confortato l'articolo pubblicato su Il Secolo XIX del 3 u.s.
"Ci serviva più spazio e quei locali [ il capannone di 11.500 metri quadrati sulla riva destra del Polcevera, vicino al Ponte ricostruito, dove ha sede il Bic ] sono adatti al laboratorio di robotica che stiamo sviluppando " ha spiegato il Direttore dell'Iit Giorgio Metta, Ingegnere elettronico (laureatosi nell'Ateneo Genovese).
In quei locali sorgerà il centro di sviluppo e costruzione di prototipi robotici di tipo industriale. Cioè un'attività ad altissimo contenuto di conoscenza ed elevatissimo valore aggiunto !
Proprio il tipo di sviluppo indispensabile per il miglioramento culturale ed economico della nostra Terra.
Ma cosa ha contribuito a decidere per quella sede?
Lo ha puntualizzato il Direttore :"E poi, vedendo i progetti di riqualificazione della zona della Val Polcevera, lo sviluppo dell'area è interessante anche sotto il profilo urbanistico."
Ma se non fosse crollato il ponte ci sarebbe ugualmente stata questa promettente evoluzione?
È evidente che il contesto urbano ("il profilo urbanistico") riveste un ruolo importante per ospitare adeguatamente scienziati e tecnici dei vari livelli che lavoreranno al Bic.
Dobbiamo considerare il crollo del ponte come un evento propizio ? Ci voleva quel disastro per rendere appetibile quella zona ?
Perchè non pensare alla riqualificazione urbanistica anche dell'area ex-ILVA?
Le considerazioni riportate da un articolo su La Repubblica rendono logica l'intenzione di acquisire almeno 500.000 metri quadri per le necessità di sviluppo della Città.
Basta riflettere sulle rispettive superfici per capire le potenzialità dell'area di cui dispone l'acciaieria.
Il Bic ha un'estensione di 11.500 metri quadrati e quella piccola area ha consentito di localizzarvi laboratori d'avanguardia; pensate,cari lettori, cosa si potrebbe realizzare su un'area di quasi 50 volte !
Non solo la "... costruzione di prototipi robotici ..." ma anche la produzione in serie !
E la prossimità del Porto ed aeroporto consente un'esportazione "a Km zero".
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- Scritto da Dr. A. C.
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Verso la fine degli anni 80 del secolo scorso, fui uno dei primi a Genova, e il primo nel Gruppo cui apparteneva la mia azienda, a introdurre un numero limitato di contratti a part-time. Le interessate erano giovani mamme e, prima di tutto, persone serie. Pur lavorando per il 50% del tempo (l’unica misura prevista in quei primi tempi) loro “produzione” fu infatti ridotta in misura ben minore dell’orario. Lavoravano con maggiore serenità e utilizzavano meglio il tempo di lavoro, ricevevano una retribuzione leggermente superiore al 50% per il minor carico fiscale.
Tutto bene? Niente affatto: mi guadagnai molte rampogne dai colleghi e dall’Intersind, la rimpianta “Confindustria dell’IRI”, tutti preoccupati di veder scardinata l’organizzazione aziendale e certificato un qualcosa che sapeva di assenteismo autorizzato. Passato un primo periodo di mugugno, tutto funzionò molto bene. Ancor meglio funziona oggi, dato che il part-time può essere usufruito per percentuali minori di riduzione. In questo modo la “produzione” delle persone è praticamente uguale a quella del lavoro full time e la retribuzione percepita pure.
Oggi il part-time è qualcosa di acquisito, le preoccupazioni di un tempo ridotte al minimo. E farebbero sorridere se non sentissi spuntare critiche analoghe per una forma di lavoro che in questi tempi di quarantena è stata imposta alle aziende non sempre pronte, tecnicamente e psicologicamente, ad accettarlo: lo smart-working, lavoro agile o più correttamente, il lavoro da casa.
Il lavoro da casa, o da remoto, nacque molti anni fa in UK come strumento per combattere lo spopolamento delle isole e delle zone più remote della Scozia. In Italia ha stentato ad affermarsi e se ha avuto uno sviluppo è stato in occasione di catastrofi: il COVID19 è piovuto addosso alle aziende, chiudendo in casa i dipendenti e rendendo necessario utilizzare questa modalità di lavoro.
Va detto che Genova, dopo il crollo del ponte Morandi, è stata all’avanguardia nell’introdurre questa importante innovazione, per ridurre gli spostamenti dei dipendenti e alleggerire il traffico cittadino, privato della sola via di scorrimento. Si è trattato di imprese o fondazioni altamente tecnologiche, principalmente insediate nell’area degli Erzelli, che hanno reagito senza problemi all’innovazione organizzativa. Per capire l’importanza dello smart working, è interessante citare il caso di una signora genovese, trapiantata in Svezia, ma bloccata a Genova per la pandemia. La signora è assistente personale di un altissimo dirigente di una azienda d’importanza mondiale: opera senza problemi a più di duemila chilometri dalla normale sede di lavoro.
La pandemia potrebbe e dovrebbe essere l’occasione per dare l’impulso definitivo allo smart working.
I vantaggi sono evidenti: meno affollamento sui mezzi pubblici e meno traffico pendolare. Minori costi per le mense, risparmio sugli spazi e le infrastrutture.
In uno studio del 2015 l’Università di Stanford aveva stimato per un'azienda di servizi un aumento della produttività del 13% grazie a questa modalità di organizzazione del lavoro. Uno studio più recente che ha coinvolto 250 persone operanti in 21 imprese, piccole medie e grandi, ha evidenziato questi dati medi annui per dipendente: 2.400 chilometri percorsi in meno, sette giorni guadagnati e 270 chili di anidride carbonica non immessi nell’aria con un risparmio di circa 1.300 euro a dipendente. Tra i benefici dello smart working, inoltre, c'è il poter realizzare un migliore work-life balance ed una conseguente diminuzione dello stress da lavoro.
Ovviamente non tutti i lavori si prestano, ma nella maggior parte dei casi si potrebbero limitare le presenze fisiche negli uffici allo stretto necessario, per il resto la tecnologia aiuta e risolve. Purtroppo non tutto il mondo del lavoro italico (datori di lavoro e sindacati) sembra pronto a questo salto organizzativo e culturale. È vivo da entrambe le parti il pensiero che possiamo banalmente definire: “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”.
Per il sindacato significa che il lavoratore a domicilio possa essere considerato di serie B rispetto ai presenti in ufficio e, soprattutto se donna, messo in disparte nelle politiche retributive e di crescita professionale.
Per il datore di lavoro resta il sospetto che il lavoro a domicilio sia una possibile sinecura, un modo autorizzato di lavorare con il minimo impegno. Questo ovviamente può accadere, ma mi sia consentito di dire sottovoce che il “lavativo” resta tale anche se sta fisicamente in ufficio; così la sua assenza se non altro non è di disturbo e provocazione per i colleghi.
Battute a parte, la gestione del lavoro da casa non è diversa da quella del lavoro tradizionale. Fondamentale è la capacità del management di dare obiettivi chiari, controllare tempi e modi del loro raggiungimento, saper premiare, o punire, in base ai risultati. Purtroppo per esperienza diretta (anche su me stesso), so che se già non è facile dare obiettivi ben strutturati, è faccenda scomoda darsi parametri e modi di controllo; quasi indigeribile, infine, riprendere e se del caso punire chi non raggiunge l’obiettivo. Anche premiare può essere scomodo se non ci si distacca completamente, e non è così semplice, dalla soggettività.
Per concludere, credo che la diffusione dello smart-working sarà una dei pochi lasciti positivi della pandemia, se imprese, sindacati e lavoratori ne comprenderanno appieno i vantaggi e sapranno adattarsi al nuovo modo di operare. Sarà necessario dotarsi degli strumenti informatici necessari, ma questi sono ormai largamente disponibili, e il loro costo sarebbe assorbito dai molti risparmi cui abbiamo accennato. Più complicato sarà formare le persone e abituarle a lavorare in un contesto diverso da quello cui erano abituate da sempre. Ma la vera sfida e la chiave del successo sarà formare dei dirigenti e capi in grado di guidare le risorse umane senza averle fisicamente sotto controllo.
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- Scritto da Pierluigi Patri
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«Taranto può e deve pensare al suo futuro senza vederlo legato allo stabilimento dell’ex Ilva».
Lo ha dichiarato giorni fa Mario Turco, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con la delega alla Programmazione economica ed agli investimenti, che ritiene occorra «un accordo di programma per la riconversione economica e industriale della città».
«L’Ilva è stata un risorsa nei decenni passati, certo, ma da ormai troppo tempo è piuttosto un incentivo alla paralisi economica della città. »
«Anziché pensare solo all’acciaieria, la mia città deve puntare su uno sviluppo delle infrastrutture e sull’autonomia universitaria».
Sono concetti analoghi a quanto la nostra Associazione sostiene da anni.
Non siamo così categorici nell'affermare che l’Ilva sia stata un risorsa per Genova. Certamente ha fornito migliaia di stipendi ma ha anche provocato danni alla salute, al territorio ed uno sconvolgimento sociale legato a grandi numeri di assunti (tutti indispensabili oppure molti utili solo politicamente?).
È il momento che i politici locali e romani eletti nel nostro territorio, ancorchè abbiano chiara la situazione ma si trattengano dell'esplicitarla, si attivino per promuovere il superamento dell'industria pesante che non si addice alle caratteristiche orografiche -e non solo- della nostra Terra.
Qui servono attività ad alto ed altissimo contenuto di conoscenza per una ricaduta di ricchezza economica ed intellettuale. Ci sono già Centri di notevole levatura che facilitano il compito dei decisori.
P.S. Nell'articolo collegato il Sottosegretario si esprime nei confronti di Taranto dicendo «... la mia città deve puntare ...». C'è da sperare che i parlamentari liguri abbiano la stessa sensibilità.
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- Scritto da E = mc2
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Le attività legate ai trasporti marittimi costituiscono, ora come in passato, una importante componente del lavoro e della ricchezza di Genova e della Liguria, quindi notizie come quelle relative ad Hapag Lloyd fanno solamente piacere.
Il Porto e le attività connesse sono uno snodo cruciale nel movimento delle merci; poiché il commercio internazionale deve continuare -magari tra alti e bassi- e le merci devono continuare a viaggiare possiamo stare tranquilli per la ricchezza prodotta dai nostri Porti perchè nessuno può portarceli via.
Nonostante ciò l’attenzione e la cura per un efficace sistema portuale non può allentarsi perché la concorrenza, in particolare quella dei porti nord-europei, può drenare ricchezza dalle nostre banchine come accaduto in passato.
Quindi basta prestare molta attenzione alla funzionalità del sistema per stare tranquilli ?
Pare proprio di no perché le rotte commerciali possono cambiare e rendere i porti meno fondamentali quando ci sono alternative terrestri economicamente concorrenziali.
Due grandi potenze economiche dell'Asia non hanno strettamente bisogno del Mare per trasportare le loro merci in Europa.
Cina e Giappone hanno pianificato ed organizzato un sistema di trasporto ferroviario che consente di far arrivare le merci in Europa in meno di 3 settimane bypassando Suez e risparmiando su tempi e costi.
Riteniamo che questa "via della seta" terrestre evidenzi inequivocabilmente la necessità di elaborare una strategia innovativa per mantenere ed incrementare ricchezza e sviluppo nella nostra Terra.
Ne abbiamo già scritto in queste pagine.
Lo sviluppo deve puntare ad insediamenti di attività a limitata occupazione di territorio, ad alto ed altissimo contenuto di conoscenza -quindi di ricchezza- ed alla indispensabile presenza di centri di ricerca.
Conoscenza e ricerca, peraltro con evidente nesso di reciproco stimolo, creano occasioni di prestigiosa ricaduta economica anche in ambiti non strettamente collegati; rapporti di collaborazione, studio ed interscambio culturale originano occasioni di incontri (congressi, stages, ecc.) che alimentano il cosiddetto turismo congressuale utile -tra l'altro- a favorire la frequentazione del luogo innescando un meccanismo virtuoso di promozione del territorio.
Più conoscenza, più ricerca = più ricchezza diffusa!